“Non bisogna mollare mai, e lo dico a voi che siete perseguitate, che avete paura, che non sapete come e cosa fare”. Anni di battaglie in cui l’ex consigliera ha lottato anche per tutte le donne che, per mano dell’uomo che ha giurato amore eterno, subiscono violenze. Fisiche, psicologiche poiché non solo i lividi condannano un comportamento deprecabile, bensì insulti e un vortice psicologico in cui denigrare, sbeffeggiare, sminuire, sottovalutare, privare sono un’arma tagliente e a volte più letale di uno schiaffo.
La vicenda: dopo anni di violenza subita, Cadau decide di presentarsi in Questura, “imbottita di tutto il coraggio che ero riuscita a raccogliere.
Sapevo che questa volta sarebbe stato diverso, avevo conosciuto una persona in gamba che mi aveva garantito rispetto, intanto, e che si era accorta che le mie non erano le parole rancorose di una moglie in cerca di vendetta, come invece il suo collega aveva sostenuto anni prima, costringendoci quindi ad altro tempo violento, tempo trascorso in trincea a difendermi e a difendere i miei figli dall’orrore.
E quindi ero lì, davanti a quella vetrata, con la mia avvocata e mia figlia” ha raccontato la donna. Una decisione non semplice poiché mille sono le motivazioni che possono spingere una donna a subire: è semplice, per chi ha avuto la fortuna di non dover affrontare certe situazioni, spesso dire “al primo comportamento sbagliato è sufficiente andare via”. Ma chi ama veramente non capisce come chi, che ha conquistato con tutto il bene espresso, può mutare improvvisamente e generare comportamenti malsani in cui cattiveria e orrore si impossessano dello spirito e del corpo del “finto” principe azzurro. Non solo: i figli, se presenti nel rapporto di coppia “malato” possono essere inclusi nelle dinamiche inaccettabili per una mamma con il cuore spezzato. Ed è ciò che è avvenuto a Patrizia Cadau, madre di due figli, uno piccolo, sapevamo tutti, io per prima, che sarebbe stato proprio lui a pagare un prezzo altissimo. Perché era più piccolo. Perché in cuore mio sapevo come vanno queste cose della giustizia, perché il rischio di essere accusati di essere noi altri cattivi nei confronti del cosiddetto padre violento era alto, così come era alta la possibilità che si attivasse tutto quel meccanismo oscuro che porta all’allontanamento di un bambino da casa sua, perché la madre ha osato denunciare la violenza sistematica di un uomo dedito agli abusi sulla moglie e sui figli”. In un complesso e precario stato d’animo “con enorme fatica cominciai a raccontare la nostra storia per formalizzare la querela.
Non so quante volte mi sono fermata a piangere. Non so quanti fazzoletti mi hanno dato e quanti bicchieri di acqua.
Ci sono volute ore per raccontare, circostanziare, fare emergere tutto quello che per autodifesa avevo rimosso. E nonostante questo, quel racconto risulta parziale, deficitario ma in quel momento mi sembrava di avere detto perfino troppo, che tanto più parlavo più pensavo di mettermi nei guai, io, come se davvero io avessi un qualche tipo di responsabilità nell’essere scampata alla morte per miracolo o per il fatto che i miei figli si fossero abituati ad essere minacciati con le armi puntate al fianco”.
“Rientrai a casa, trovando poi rifugio dagli amici come lepri braccate e poi la prima sorpresa: la legge non mi avrebbe permesso di tenere con me i miei figli”. Il figlio minore fu affidato al padre per 45 giorni, “non voleva andare ma si sentiva incaricato della responsabilità di proteggerci. Era convinto che continuando ad assecondare il padre nei suoi capricci e nei suoi abusi avrebbe protetto la madre e la sorella.
Ho pianto tantissimo.
Ho pensato che forse se fosse riuscito ad uccidermi sarebbe stato meglio.
Ho avuto paura di non rivedere più il mio bambino.
Ho pensato che tutto il male del mondo si sarebbe abbattuto sulla nostra vita già disgraziata.
Ancora adesso, negli incubi che mi fanno visita nelle mie notti tormentate cerco i miei figli, non li trovo, corro, scappo, mi sembra di intravvederli provo a raggiungerli ma un accidente mi frena e mi sveglio col cardiopalmo e la sensazione di stare per morire”. Assecondare l’uomo “nei suoi capricci e nei suoi abusi” poiché alla fine diventa una routine il cambiamento di umore e di comportamento e si ci “abitua”, o meglio, si cerca di placare l’ira irrazionale e a sperare che questa possa cessare definitivamente. Razionalmente si sa eccome che certi comportamenti non devono essere tollerati e tanto meno sussistere in una sana relazione ma il cuore non capisce e, paradossalmente, entra in conflitto con la mente generando la dissonanza cognitiva. Un corto circuito interiore, la devastazione della psiche. Dopo la denuncia sono trascorsi sei anni in cui ci sono stati processi civili, “ci sono finita con l’accusa di alienazione parentale, per la volontà del padre e dei nonni di usare ancora violenza, invece di chiedere perdono per quanto già commesso”. Sino a ieri “il violento” era “libero, ma non parlo tanto di aspetti cautelativi, di cui francamente poco m’importa. È libero nel senso di impunito, al di sopra della legge di Dio e degli umani, un parassita violento e narcisista, che non solo non ha mai manifestato consapevolezza del male inferto, ma che continua ad infliggerne, fottendosene del diritto e del dovere, senza che nessuno gli abbia mai nemmeno sospeso la responsabilità genitoriale per violenza ma anche per totale negligenza, visto che non ha mai pagato manco l’acqua per una doccia, di questi figli, che però ha preteso che gli venissero dati in tribunale. Come piccoli trofei.
Perché questi violenti, sono anche ladri, soprattutto ladri, incapaci se non approfittando degli altri, capaci perfino di ostentare una vita agiata, che se è agiata è perché sono stati sottratti mezzi ad altri, i figli ad esempio.
Questo devono sapere le donne, intanto.
Che denunciare significa anche questo.
E che questo non è più tollerabile in un paese civile, e che nel momento in cui le forze dell’ordine riescono a fare tutto ciò che devono per loro competenza, allora la macchina si ferma da qualche altra parte.
Ed è tempo, tanto tempo, in cui i bambini, da bambini si trovano ad essere maggiorenni.
E la responsabilità di questo male, benché la responsabilità penale sia individuale, è collettiva, sociale”.
“Rifarei tutto. Tutto.
Per me, per i miei figli, per le donne per le quali nel tempo sono diventata mio malgrado un esempio e per la forza che mi sono resa conto di avere, anche quando sembra non ce ne sia più.
Ma soprattutto perché il violento, per quanto libero e impunito, e pure circondato da gattemorte e gattimorti pronti a compiacerlo per ricevere in cambio una cena o un alloggio più comodo, è stato smascherato per quello che è: un patetico cialtrone dedito ai maltrattamenti, alla crudeltà, alla miseria umana.
Non state mai zitte: parlate.
Ci vuole tempo. Ci vuole anche fortuna.
Ma l’alternativa è davvero quella di morire, e allora non c’è altro da fare.
Non siete sopravvissute a caso, ma per raccontare a quelli che non sanno e a quelle che potrebbero salvarsi con le vostre parole”.
Non è semplice raccontare quanto accaduto e, soprattutto, senza nascondersi, ma Patrizia Cadau lo ha fatto perché sa bene cosa vivono le donne che non riescono a intraprendere il suo percorso, o che, paradossalmente, nemmeno hanno ancora la consapevolezza di essere vittime di un rapporto malato poiché ammetterlo a se stessi è più difficile che raccontarlo agli altri. Ben per questo l’omertà va accantonata più che mai e non si deve avere timore di esporsi. Se si nota una situazione anomala è bene intervenire, subito, prima che sia troppo tardi.
“Questa la sentenza del tribunale di Oristano, che finalmente mette il primo punto ad una vicenda che mi ha letteralmente divorata.
Una violenza negata per anni da tutti, o quasi, ridicolizzata dalla difesa, dagli amici del violento, una violenza che ha travolto me e i miei figli come l’impatto contro una locomotiva o un’esplosione nucleare.
Ci sono volute infinite udienze, e dibattimenti civili che abbiamo sempre vinto, ma oggi, benché sia solo un primo grado, la sentenza è esemplare anche considerando che si rifà alla normativa precedente al codice rosso.
Sono felice per me e i miei figli: non abbiamo detto una sola bugia, pur sopportando il peso della calunnia di tutti quelli che invece di tenderci una mano ci hanno sputato sopra, e siamo innocenti, riconosciuti come vittime di maltrattamenti in famiglia.
Sono felice perché in questi anni abbiamo avuto persone meravigliose intorno che hanno fatto la differenza, che si sono prodigate per farci sentire meno soli, più coraggiosi: nessuno ci restituirà mai quello che ci è stato tolto, ma il bene gratuito ci ha reso più sopportabile il male in cui siamo precipitati.
Continuerò il mio impegno a servizio delle donne e dei bambini perché, adesso posso dirlo con ancora più forza, gli uomini violenti sappiano che possono diventare debolissimi ed essere giustamente puniti per i loro crimini”.
Cadau è difesa dall’avvocata Cristina Puddu, che “mi ha tirato su tante di quelle volte che nemmeno si può immaginare” e nel corso degli anni è stata supportata dal Coordinamento3 e Donna Eleonora Centro Antiviolenza Oristano.












