Ci sono nuovi indizi e testimonianze all’origine della richiesta, fatta dagli avvocati Bachisio Mele e Giulia Lai, di riaprire le indagini sulla morte di Manuela Murgia, la 16enne trovata morta in fondo a uno dei canyon di Tuvixeddu il 4 febbraio 1995. I mesi di battaglia dei parenti della giovane (i genitori anziani, sempre presenti e supportati dalle altre due loro figlie e dal figlio, più altri familiari e tanti amici) sembrano essere serviti: “Vogliamo giustizia vera”, così si può riassumere il grido, monocorde, di Gioele, Elisabetta e Anna. E fa pensare e comprendere ulteriormente il dolore della famiglia il fatto che lo stesso Gioele, l’unico a non essere ancora nato quando Manuela venne trovato morto, si commuova nel ricordare la tanta strada fatta: “Ci auguriamo che il caso venga riaperto, confidiamo nelle nuove tecnologie e nei nuovi esami e controlli. Lo sappiamo che nostra sorella è stata uccisa, ora serve che si arrivi a capire e dire ben altro di quanto detto tempo fa”. Cioè che si sia trattato di un suicidio, ipotesi mai presa in considerazione da tutti quelli che conoscevano la sedicenne. “All’obitorio abbiamo visto i segni sul suo collo, lei non si sarebbe mai tolta la vita. Rivedere le foto è stato un colpo al cuore, lasciata in quello sterrato come una busta della spazzatura”. Bisognerà attendere almeno qualche settimana prima di ricevere la risposta dalla Procura. Tutti sperano in un via libera a nuove indagini e alla riesumazione del cadavere. E che il guidatore dell’auto blu metallizzata sulla quale è salita la giovanissima a poche ore dalla sua morte abbia finalmente un nome e un cognome.
“Sono molto positiva”, afferma Elisa Murgia, “abbiamo ricevuto nuove testimonianze e voci importanti, fondamentali, che ci aiutano anche a capire su quale pista possiamo orientarci. Non ho in mente chi possa avere ucciso Manuela ma che cosa sia successo. Non è stata una sola persona, dobbiamo cercare un gruppo, un branco”. Chi poteva però volere il male di una ragazzina tutta casa e parrocchia-chiesa arrivata a vivere in via Barigadu, a Cagliari, da pochi mesi, dopo una prima parte della vita passata a Monserrato? “Non lo sappiamo. I giorni prima della morte ha ricevuto minacce al telefono e probabilmente di persona. Era preoccupata, è possibile che si sia trovata nel posto sbagliato con persone sbagliate. Eravamo arrivati da poco da un paese, Monserrato, magari si era invaghita di qualcuno e, involontariamente, aveva sbagliato frequentazioni”. E non viene esclusa nemmeno la violenza sessuale: “Facciamo parlare e lavorare i medici”. A quasi trent’anni di distanza, con nuove tecniche, tutto può essere possibile. Anna è l’altra sorella della sedicenne: “Dietro la sua morte sembra esserci un branco, tutto può essere, abbiamo valutato che quanto capitato sia stato fatto da più persone. Manuela era pulita, onesta, candida, ingenua, non si spiega perchè abbia fatto una fine di questo tipo. Noi abbiamo sempre rispettato, come famiglia, la richiesta di silenzio per non disturbare le indagini”. Poi, però, è arrivata quella parolina, “suicidio”, che è sempre stata rifiutata dalla famiglia: “E vedendo le carte, a ventotto anni dalla morte, abbiamo deciso che era arrivato il momento di farci sentire perchè vogliamo sapere che cosa è davvero successo a nostro sorella”.











