A pensare a quello che guadagnava facendo quello che più gli piaceva fare, a 17 anni e dall’alto del suo metro e 98, provava vergogna: una cifra per lui spaventosa, cinque volte più di suo padre operaio, sveglia all’alba tutte le mattine per portare il pane a casa. Il campione, gigantesco, era già lì: con quella consapevole umiltà che l’ha portato per oltre trent’anni a essere il simbolo di Cagliari e della Sardegna nel basket, lui che la Sardegna l’ha scelta per la vita, con il clamoroso rifiuto della proposta di Varese, la Juventus della pallacanestro di allora, quando aveva appena 21 anni. Tore Serra è esattamente come appare: zero fronzoli, una smisurata passione per il basket, la generosità innata che lo porta a regalare tempo e impegno ai suoi ragazzi che lo adorano, incondizionatamente. Da tre anni, dopo esserne stato vice, è presidente regionale della Federazione pallacanestro. Sempre sorridente, paziente, disponibile. Consapevole e concreto: nel 1988 ha fondato la sua società, il Su Planu, che continua da 36 anni ad attirare nuovi iscritti. Lì Tore Serra allena alla lealtà prima ancora che alla vittoria e alle medaglie, naturale catalizzatore di passione e vivaio di talenti. In pensione dalla scuola da un anno, era insegnante di motoria e vicepreside all’istituto comprensivo del quartiere, divide la sua vita fra Federazione e palestra: se un qualche alieno arrivasse sulla terra e non sapesse chi è, non farebbe fatica a trovarlo lì, a tutte le ore, perennemente attorniato da bambini festanti arrampicati alle sue lunghissime gambe.
Dieci anni nel mitico Brill, fortissimo sin da ragazzino, specialista del tiro da tre da quando fu introdotto nel gioco, inguaribile appassionato di uno sport che ha contribuito in modo determinante a far diventare grande. E che ora, alla guida della Federazione, vuol far crescere ancora.
Il no a Varese, a 21 anni: perché?
Perché ho scelto la Sardegna. Qui avevo tutto: la mia famiglia, la fidanzata, la mia squadra, gli amici, il mare. E la mia gente, i tifosi. A basket ho sempre giocato per passione e con passione, mai per guadagnare di più o fare carriera: certo il Varese era la Juventus del basket, sarebbe stata una incredibile occasione, ma io ho deciso subito quello che volevo fare.
Si è mai pentito?
No, mai pentito.
E ha mai pensato a cosa sarebbe potuto accadere se avesse accettato?
Ogni tanto sì, me senza soffrirne.
Una scelta che ricorda quella di un altro grande campione, l’amatissimo Gigi Riva.
Vero. Fra l’altro, lo sanno in pochi ma Gigi spesso veniva a giocare a basket, ed era competitivo anche lì. E noi giocavamo a calcio con lui: ma lo facevamo stare in porta, per evitare che ci massacrasse col suo talento, era troppo bravo per noi. Silenzioso e taciturno, non si tirava mai indietro quando c’era da affrontare una sfida, persino con noi giocatori di basket. Quello al Brill è stato un periodo incredibile: il palazzetto era sempre stracolmo, la partecipazione della città straordinaria, un periodo indimenticabile.
Come è cominciata la sua storia da campione?
Nel 1961, avevo 6 anni, la mia famiglia si è trasferita da Orosei a Cagliari. Le medie le ho fatte alla Regina Elena di via Dante e lì ho iniziato a giocare a pallacanestro, a scuola, una volta alla settimana. Facevo anche il chierichetto, d’estate, alla parrocchia di Cristo Re, e poco lontano c’era un campo da basket: mi ha trovato Amalia Rinopoli, una mia compaesana che faceva parte dello Sforza, la società fondata da Gianfranco Fara con la moglie Maria e Otello Formigli, storico allenatore del Brill. Guardandomi letteralmente dal basso, ero già altissimo, mi chiese quanti anni avessi e dopo aver scoperto che ero di Orosei, come lei, mi disse senza ammettere repliche: da domani vieni a giocare a basket. E da lì tutto è cominciato: la mattina a scuola, pomeriggio e sera ad allenarmi, andavo a piedi da casa mia in Fiera, i bus passavano troppo raramente e facevo prima così. Nel giro di due anni ero in squadra, a 15 in serie A.
E lì sono iniziati dieci anni da favola con il grande Brill, per la gioia dei tifosi.
Un’avventura incredibilmente bella. I tifosi andavano al Sant’Elia a vedere il Cagliari, poi si spostavano al palazzetto a supportare noi: pomeriggi magici e indimenticabili, con lo sport capace di trascinare e entusiasmare migliaia di persone.
Ma lei era consapevole fino in fondo del suo talento?
Per niente. Io giocavo perché mi piaceva, per passione. Non pensavo ad altro, non mi sono mai chiesto se avessi talento e dove mi potesse portare.
I suoi genitori come hanno reagito a tanto successo?
Con il distacco tipico di chi nella concretezza della quotidianità ha la sua cifra. Mia madre non è mai venuta a vedermi, mio padre qualche volta, ma non mi hanno mai seguito da vicino. Certo, erano orgogliosi di me, ma a modo loro: pensavano facessi il mio dovere e mi dicevano, “Avete vinto? Bravi”, senza tante storie.
Lei ha girato mezzo mondo, qual è il ricordo del suo primo viaggio?
A 15 anni, un aereo a elica da Cagliari a Napoli, una vera e propria avventura. Sono stato in Libia, negli Stati Uniti, a vari meeting europei, ai mondiali militari. A 16 anni sono stato convocato in Nazionale juniores: ero partito da solo, un viaggio scomodo e lunghissimo, ma la fatica non la sentivo proprio: Cagliari-Civitavecchia in nave e poi in treno fino a Cortina d’Ampezzo. Indossare la maglia azzurra e sentire l’inno sono state sensazioni indescrivibili, emozioni indimenticabili.
Dopo il Brill, altra sfilza di squadre e successi.
Sono stato a Pordenone in serie A e B, a Latina e a Sassari, alla Dinamo, in B, di nuovo a Pordenone e poi a Cagliari all’Esperia, nell’85, quando il basket era di nuovo seguitissimo.
Come è cambiato il basket in questi 50 anni?
Prima c’era molta tecnica, ora c’è un po’ un’esasperazione fisico-atletica. Va trovato un nuovo equilibrio, e sono certo che accadrà. Ma il basket è uno sport che gode ottima salute e che ha un futuro radioso davanti.
Difficile essere al timone della federazione?
Problemi da risolvere ce ne sono sempre, ma la posta in palio è importante e quindi ce la mettiamo tutta, grazie anche alla preziosa e costante collaborazione con il presidente regionale del Coni Bruno Perra: le società vanno sostenute – e la Federazione lo fa ogni giorno, impegnandosi al massimo – perché possano svolgere quel ruolo sociale, preziosissimo, che ha lo sport. E non parlo di allenare ragazzi a diventare campioni, parlo di educarli alla vita. In questo il basket, e in generale tutto lo sport, è fondamentale.
Della Dinamo che ci dice?
Quest’anno sono state fatte scelte importanti, ora bisogna dare tempo al tempo per trovare un nuovo equilibrio e tornare fra le tre-quattro squadre più forti del campionato. I presupposti ci sono tutti.
E della Nazionale?
Anche lì ci sono tutte le carte in regola per riuscire bene e c’è qualcosa da sistemare per diventare una squadra ancora più forte e competitiva.
Le hanno mai chiesto di entrare in politica?
Si, molte volte.
Ma?
Ma io sono uno spirito libero.
Quest’anno ha portato il suo Su Planu maschile dalla D alla C, e la squadra femminile affronta la B. Soddisfatto?
Soddisfatto quando riesco a trasmettere quello di cui sono fermamente convinto: il basket salva se si gioca con la mentalità dello sportivo, non per la ricerca spasmodica del campione. Che, se c’è, emerge comunque.
Dicono che lei non rinuncerebbe mai ad allenare i bambini del minibasket e le ragazze della B. Perché?
Con i bambini c’è un feeling assoluto e speciale, siamo in sintonia totale. Con le ragazze ho un forte senso di protezione: da sempre combatto il maschilismo ancora molto presente in generale nel mondo che viviamo.
Ai suoi ragazzi, o a quelli che arriveranno, cosa vuole dire?
Che le sconfitte sono momenti di crescita e che non si deve pretendere di avere tutto e subito. Bisogna stare con i piedi per terra, allenarsi, divertirsi, giocare e giocarsela, ma sempre con la mentalità giusta. E voglio anche dire loro di giocare a basket, che è uno sport meraviglioso. Ogni tanto mi sento chiamare in strada, mi trovo davanti uomini e donne, adulti e a loro volta genitori, che mi chiedono se mi ricordo di loro, miei allievi magari di trent’anni prima: e sono felice di quello che sono diventati, anche grazie alla pallacanestro.
Tore Serra andrà mai in pensione dal basket?
Mai.










