Un’intera famiglia quartese in balìa della possibile positività al Coronavirus. Dai primi di ottobre, Michela L., 42 enne (nome di fantasia per tutelare la privacy dei figli, tutti minori, coinvolti nella vicenda), i suoi tre figli e il marito hanno dovuto “battagliare” per poter essere sottoposti al tampone. Nel mezzo ci sono messaggi WhatsApp al loro medico di famiglia, email di spiegazioni inviate alla scuola di uno dei figli e un test sierologico, fortunatamente negativo ma “inutile”, visto che i sintomi del Covid-19 non sono scomparsi. Un’odissea, quella che ancora oggi sta vivendo una famiglia quartese. A raccontare tutto è proprio la quarantaduenne: “Il due ottobre siamo stati a cena da un parente, risultato poi positivo. Nelle 48 ore successive ho avvertito prima dei pizzichi alla gola, poi è arrivata le febbre sino a 38 e dolori muscolari. Lunedì, due dei miei tre figli hanno avuto la febbre. Giovedì otto ottobre, solo a me, è andato via il gusto e l’olfatto”. E lo “spettro” del Covid inizia a materializzarsi: “Ho avvisato il mio responsabile a lavoro, sono ogni giorno a contatto col pubblico. Il dieci ottobre sono andata a fare il test sierologico grazie ai miei datori di lavoro, era negativo: sarei potuta tornare a svolgere la mia attività dal giorno dopo ma ho scelto di restare in casa perché non mi sentivo bene. Nel frattempo, il mio parente positivo è stato ricoverato al Santissima Trinità perché la febbre gli era salita sino a trentanove. Ora, per fortuna, sta meglio”.
Michela L. e il marito, un libero professionista di 45 anni, avvisano via email e con telefonate le scuole frequentate dai loro figli: “Uno di loro non aveva nessun sintomo, idem mio marito, ma per precauzione sono rimasti in casa anche loro. Ci siamo organizzati: io e le due piccole in una parte dell’abitazione, loro in un’altra, per evitare contagi. Venerdì scorso, dopo la terza telefonata nella quale l’Ats mi aveva detto che, per i tamponi, era necessario un sollecito del mio medico, è arrivata la svolta: ha inviato una email e, ieri, siamo riusciti a fare i test al Santissima Trinità. Ora dobbiamo attendere i risultati”, osserva la donna. Che ha scelto di raccontare quanto ha vissuto (e sta ancora vivendo) principalmente per due motivi: “Perché ci siamo sentiti abbandonati, restando per tanti giorni senza nessuna comunicazione. E perché, a tutti quelli che dicono che attendere una o due settimane prima di fare il tampone non è la fine del mondo, vorrei rispondere che restare tappati in casa, per di più con dolori muscolari e febbre, non è il massimo, anzi, è un inferno. Che non auguro a nessuno di vivere”.











