Una galleria con un nome di battesimo, Henry. Va letto alla francese perché è dedicata a un dirigente transalpino della società Anonime des Mines de Malfidano, concessionaria dello sfruttamento della miniera di Pranu Sartu. Il posto è Buggerru. Per entrare bisogna fare come i minatori di una volta, indossare il casco. Serve a proteggersi, ma anche a immedesimarsi. A provare a immaginare di essere come quegli uomini che lavoravano nelle viscere di montagne e colline. In questo caso il tunnel è scavato dentro un altopiano. Ora i minatori non ci sono più, quelli che entrano sono turisti. E lo spettacolo sembra una poesia di Pascoli: tutto buio, il buio della miniera. E improvvisi squarci di luce e mare quando i labirinti sbucano nei camminamenti esterni protetti dalle rocce bianche. Le foto più belle sono quelle che si fanno quasi alla fine del percorso: una piazzola a strapiombo sulle onde con vista sul paese di Buggerru. Si va piedi, ma c’è anche un percorso con il trenino, l’erede di quello che un tempo trasportava i minerali sino alle laverie. E poi alla barche che portavano le pietre del Sulcis in mezzo mondo.

La piccola locomotiva. E poi i vagoncini. Per un viaggio tra i cunicoli che è anche un viaggio indietro nel tempo, al 1800. Quando l’economia ruotava intorno alle miniere. E i pastori e gli agricoltori diventavano minatori abbandonando le campagne. E abbracciando quell’idea di modernità e futuro che l’attività estrattiva sembrava garantire. Ma il “posto fisso” era anche fatica, dolore e incidenti. E proprio la miniera di Pranu Sartu è un posto ancora più affascinante perché pieno di storia. Drammatica, come l’eccidio di Buggerru. Una vicenda che spesso è usata come emblema di identità sarda. Nel 1904 i minatori, stanchi dei turni massacranti e dei salari che alla fine non erano tutta questa grande alternativa alla vita dei campi, si ribellarono e organizzarono un clamoroso sciopero. Ora tutto si risolve con un sit in tra striscioni e bandiere. Ma allora i “padroni” chiamavano l’esercito. E altro che trattative: volavano proiettili. Tre operai rimasero in terra, eroi di una protesta che da lì si diffuse in mezza Italia. Ma in Sardegna ogni miniera ha la sua storia da raccontare. Piena di fascino e di insegnamenti. Un tesoro da valorizzare in tutti i modi. Esperienze- turistico-culturali ma anche umane- simili a si possono fare anche alle miniere di Serbariu e del Villaggio Rosas.

A Porto Flavia, con la sua fantastica porta sul vuoto e a strapiombo sul mare, si organizzavano (e si organizzeranno di nuovo dopo il lockdown e la pandemia), insieme alle visite guidate, anche concerti e rassegne di musica classica.

Perché le bellezze della Sardegna hanno bisogno anche di una bella colonna sonora. C’è un patrimonio valorizzato. E tanto altro da valorizzare. Basti pensare ad esempio al fascino dell’abbinamento tra Montevecchio, villaggio abbandonato ma ricco di tesori architettonici, e la lunga e selvaggia spiaggia di Piscinas. Ci vogliono progetti e idee. E un’idea, qualche anno fa, l’avevano lanciata gli studenti dell’istituto geometri Bacaredda. Con le loro competenze tecniche avevano risistemato in un progetto digitale un’area colpita dall’alluvione del 2008 fra Capoterra e Assemini.

Trasformandola in un piccolo paradiso terrestre con parchi, corso d’acqua e campi da tennis. Al centro il vecchio villaggio della miniera di San Leone: nella fantasia dei giovani aspiranti geometri destinato a diventare un campus per studenti e un albergo per regalare al territorio turismo e posti di lavoro. Quella miniera aveva persino stazione e trenino: arrivava sino a Maddalena spiaggia per portare i minerali su piccole imbarcazioni che a lato volta trasferivano il loro carico sulle grandi navi ancorate al largo


Contenuto realizzato in collaborazione con la Regione Autonoma della Sardegna, Assessorato del Turismo, Artigianato e Commercio. Ripartiamo dalla Sardegna. Sardegna: capace di abbracciare il mondo.












