C’è chi, se non si fosse insospettito, oggi si troverebbe a combattere contro un carcinoma chissà quanto esteso. E chi sa che deve passare ogni istante della sua vita a sperare, e pregare, che ci sia sangue a sufficienza per il suo corpo. Eccole, altre storie di sanità nel caos a Cagliari. Va avanti l’inchiesta di Casteddu Online, tra esami insufficienti e sacche di plasma col contagocce. Natalina Aiello, 67 anni, ormai prossima alla pensione, un passato lavorativo come addetta alle pulizie, oggi ringrazia principalmente se stessa se sta bene: “A inizio 2019 ho fatto una mammografia alla Cittadella della salute. Dopo pochi giorni mi hanno spedito l’esito: negativo. E non mi hanno spedito nessuna lastra”. Ma la donna ha sentito, nel vero senso della parola, che c’era qualcosa che non va: “Un gonfiore al seno sinistro, era come se avessi una noce. Sono a fare un’ecografia in privato, pagata una sessantina di euro, e il medico mi ha chiesto da quanto tempo non facessi una mammografia”. La Aiello è rimasta sorpresa: “L’avevo fatta 15 giorni fa. Mio marito è dovuto andare a farsi dare le lastre, solo in quel momento ho scoperto di avere un carcinoma. A fine febbraio mi hanno operata all’Oncologico. L’operazione è andata bene, ma se non mi fossi preoccupata, e se non avessi fatto ulteriori accertamenti, forse oggi non sarei più su questa terra”, conclude, sospirando profondamente, la donna.
Stefano Vargiu è più giovane. Ha 57 anni è di Assemini ed è talassemico dalla nascita: “Talassemico major, ho il morbo di Cooley. Devo fare periodiche trasfusioni di sangue al Microcitemico di Cagliari. Mi ritengo fortunato perché oltre all’età, sono in buona salute e strutturato socialmente e moralmente. Grazie a chi? Alla sorte, alla mia famiglia che mi ha sostenuto e alla medicina e alle istituzioni che negli anni hanno lottato per garantirmi una vita sana, nella malattia, e decorosa”. Ma non è tutto rose e fiori nemmeno per lui. Vargiu, da paziente ed ex rappresentante dell’associazione dei talassemici sardi, ha raccontato in una lunga lettera cosa gli è accaduto due giorni fa: “Mi è venuto da piangere, mi sono ritrovato in trasfusione e solo all’ultimo sono venuto a conoscenza che tutte quelle programmate per il turno pomeridiano erano state annullate. A me, ad esempio, hanno preparato un sola sacca, nonostante la richiesta minima di due necessarie, in base al mio peso corporeo e alle mie esigenze fisiche e dopo aver subíto, 15 giorni fa, una reazione trasfusionale. Una sacca è arrivata alle 13:30 in reparto, dopo che abbiamo la regola di arrivare entro le 9”, racconta, “mi è venuto da piangere anche nel sentire le risposte dei miei medici che hanno cercato di mediare con il centro trasfusionale del Brotzu, attualmente sguarnito di personale e di tecnici. Non avere più la sicurezza delle trasfusioni mi porta a dover riprogrammare la vita, senza mai avere certezze. Non posso e non possiamo avere libertà di decisione su cosa fare domani, perché magari non ho un’emoglobina adeguata ad andare al mare, programmare una gita o pensare di andare al lavoro. Questa non è più vita”, sentenzia, deciso, Vargiu. “Questa è la mortificazione dei nostri diritti. La storia che non c’è sangue non funziona più, anche se comprensibile. La Sardegna è da sempre in carenza di sangue e spesso costretta a firmare convenzioni con regioni più virtuose per l’approvvigionamento”. Stefano Vargiu è laconico: “La politica regionale sarda sa che cosa non funziona nella sanità e pensa a realizzare 4 nuovi ospedali, senza curare la medicina già esistente sul territorio. Non funziona nulla perché sappiamo che chi è preposto per ricevere donatori spontanei non è in grado di accoglierli per mancanza di personale, fatto dichiarato dai dirigenti del centro trasfusionale, e per ingressi sempre più a dimensione della struttura e non del donatore, che va spontaneamente a orari adatti alla persona e che spesso si trova la porta del centro prelievi sbarrata, o con un cartello che gli dice che deve telefonare e programmare la donazione in giornate che magari lo inducono a indietreggiare e tornare a casa, dispiaciuto di non aver potuto compiere il suo gesto di generosità. Non bastava il Covid per distruggerci, moralmente e come malati. La vita è breve per tutti ma se quel poco che si vive e si guadagna viene speso nell’aiutare il prossimo, di sicuro farà vivere meglio e con maggiore soddisfazione”.











