Sono passati 10 anni ad oggi, dalla strage di Nassirya. Era il 12 novembre 2003 quando alle 10:29 ora locale, un camion cisterna pieno di esplosivo scoppiò davanti alla base italiana dei Carabinieri situata nel centro di Nassirya, provocando il crollo della palazzina del contingente italiano e la morte di diverse persone tra militari e civili. 28 furono le vittime: 19 italiani e 9 iracheni.
Quel terribile giorno a Nassirya c’era anche il comandante dell’esercito Gianfranco Scalas. Quelle immagini di una violenza inaudita sono impresse vivide nella sua mente.
“Ricordo ogni istante – racconta oggi il comandante Scalas – sono passati 3650 giorni, da quel giorno. Si iniziava quella mattina un’altra giornata di lavoro, tante le attività in programma e tanto il sole che abbagliava. Era una giornata come tante, che invece si è interrotta brutalmente alle 10.29 e, che non è ancora finita. Perché il tempo non passa mai e quel momento rimane costantemente dentro. Vivo. Ritorna nella mente con le altre mille sensazioni che ognuno di noi che era presente si terrà dentro.
“Non sono stati eroi -continua -ma vittime della bieca umana voglia di far del male a prescindere. E non si può parlare oggi di ricordo, – ammonisce – perché ciò che è accaduto quel giorno rimane presente. Presenti sono Massimo Ficuello, Silvio Olla, i miei collaboratori, tutti loro continuano a vivere. Insieme ai civili, i militari italiani, gli iracheni, sono presenti i bambini e i cittadini di Nassirya incolpevoli vittime di un terrorismo che non conosce lingue, bandiere, religioni e colori”.
Il comandante Scalas lancia un messaggio ai giovani e chi non ha seguito quei momenti: “Bisogna rispettare chi inconsapevole ha perso la vita e imparare a rispettare i vivi che si portano per tutta la vita quelle immagini della umanità violentata e spesso vile”.
E conclude: “Non ci si deve ricordare solo una volta all’anno di questo giorno, ma teniamoli in vita sempre soprattutto, traendo insegnamenti che potrebbero essere tradotti in stile di vita e comportamenti affinché non siano morti inutilmente”.
Federica Melis













