Per le donne sarde poter avere famiglia e lavoro è una missione quasi impossibile. Come nel resto d’Italia, certo, ma con numeri che denunciano un fenomeno ben più preoccupante rispetto alle altre regioni. Il dato è semplice: quando si diventa mamme, si sceglie sempre più spesso di abbandonare il posto di lavoro. Perché non ci sono adeguati servizi che aiutino le famiglie, perché ancora le donne devono giustificarsi con i capi per aver osato mettere al mondo un figlio, perché nessuno le aiuta se non a carissimo prezzo in strutture che non tutti possono permettersi, perché la scarsa flessibilità su orari e organizzazione non consente di star dietro a malattie e inserimenti scolastici, perché le paghe sono basse ma nessuno si lamenta perché sennò pure quello non arriva e l’elenco potrebbe continuare all’infinito.
Fatto sta che nel 2020 ben 550 donne hanno lasciato il lavoro in Sardegna, nonostante la possibilità di avvalersi dello smart working, il ricorso agli ammortizzatori sociali e il divieto di licenziamento. 550 donne, l’anno prima erano 803 ma senza tutti gli strumenti di agevolazione messi in campo per la pandemia, quindi oltre 1350 in due anni. La cosa peggiore è che non ci sono spiragli, non ci sono prospettive e non si registrano inversioni di tendenza. L’unica possibilità per non mollare completamente è il part time.
Ma quello del rapporto fra maternità e lavoro è un problema culturale, prima di tutto: tutti ne parlano, nessuno lo affronta davvero.











