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Commenti e post duri su Facebook? Si rischia la diffamazione aggravata

di Ignazia Melis
25 Giugno 2017
in rubriche, whatstech

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Con la recente sentenza n. 24431 dello scorso 8 giugno 2015, la Cassazione è tornata ancora una volta sullo scottante tema della natura “penalistica” dei social network. La controversia è nata dalla vicenda accaduta ad una persona che, trovando poco cortese un commento effettuato da un altro utente sul suo profilo Facebook, lo denunciava alla polizia postale. Erano ovviamente visibili nome, cognome e foto del denigratore. Il Giudice di Pace si era dichiarato incompetente a decidere in ordine al reato di cui all’art.595, comma terzo, del codice penale, ipotizzando però il possibile concretizzarsi della fattispecie aggravata dalla diffamazione. A ciò è seguito il ricorso in Cassazione da parte del protagonista della vicenda, il quale si è poi rivolto alla Suprema Corte per avere giustizia. A questo punto la Corte ha accreditato la similitudine tra l’offesa a mezzo Facebook e la vecchia diffamazione su colonna piombata. In parole povere, come se le offese postate sul social network fossero offese commesse a mezzo stampa.

La Cassazione ipotizza dunque l’ipotesi di reato di cui all’art. 595, comma terzo, del codice penale, quale “fattispecie aggravata del delitto di diffamazione che trova il suo fondamento nella potenzialità, idoneità e capacità del mezzo utilizzato per la consumazione del reato a coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone, ancorchè non individuate nello specifico ed apprezzabili solo in via potenziale, con ciò cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa”. Tale decisione si pone inoltre in continuità con quanto accaduto negli anni passati, sempre in relazione ad ipotesi di reato a seguito dell’utilizzo distorto del social network. Appena lo scorso anno infatti, la Cassazione era stata chiamata a pronunciarsi su un caso simile, con la sentenza n. 16712 del 16/04/2014 sulla diffamazione a mezzo Facebook. Con tale pronuncia la prima sezione penale della Corte di Cassazione decideva che “ai fini della integrazione del reato di diffamazione, anche a mezzo di Internet, è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dalla indicazione nominativa”. A fronte di tutto ciò, occorre prestare molta attenzione alle moderne tecnologie. Infatti, qualunque attività effettuata su Internet, e di conseguenza anche su Facebook, è registrata sui siti in cui viene eseguita e l’autore è, generalmente, sempre rintracciabile da parte degli organi di controllo preposti e a seguito di un ordine di procedura da parte dell’Autorità Giudiziaria competente. Ciò significa che, se da un lato Facebook ha oggi rivoluzionato le nostre vite consentendo la facilità e velocità di scambiarsi informazioni e notizie da e verso ogni parte del mondo in maniera simultanea, dall’altro è bene tenere presente che se non si è a conoscenza delle normative che regolano queste attività, si rischia seriamente di incorrere in reati civili e penali.

Tra l’altro, se il post incriminato viene cancellato, non tutto è perduto e la possibilità di far valere i propri diritti in tribunale può trovare strade alternative. Possiamo distinguere due ipotesi. La prima è quella in cui il destinatario del post non sia stato tanto avveduto dal fare, prima della cancellazione, una stampa, uno screenshot o una fotografia della pagina in cui era visibile il suddetto testo. In questo caso, l’unico modo per ricostruire la realtà storica è quella di valersi di uno o più testimoni. Questi ultimi, citati davanti al giudice, potranno dichiarare quanto hanno visto, specificando il contenuto del testo e il suo autore. Ovviamente, per rendere la propria deposizione credibile e utilizzabile ai fini della sentenza, essi dovranno essere il più precisi possibile, specificando anche la data in cui il computer ha visualizzato il post, il tempo in cui lo stesso è rimasto visibile a tutti, ed, eventualmente, i commenti ad esso collegati. A riguardo, bisogna precisare che la prova testimoniale non obbliga il magistrato a decidere secondo quanto dichiarato dal teste. Un secondo modo per poter “incastrare” il responsabile del post offensivo è quello di creare immediatamente una “riproduzione meccanica” del testo prima che lo stesso venga cancellato dal suo autore. Il che potrebbe avvenire facendo una “stampa” della pagina Facebook, magari conservando della stessa un file in .jpeg o in .pdf con uno “screenshot” o magari facendo una fotografia della pagina visualizzata dal proprio computer, oppure, un video anche con il proprio smartphone. Perl’autore della diffamazione aggravata è prevista una condanna penale e il pagamento di una sanzione di 1.500 euro.

(Fonti consulate: www.italiaora.net e www.laleggepertutti.it)

Tags: cassazionediffamazionefacebooksentenza n. 24431/2015
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