Assemini, addio a Marco Todde, il senza tetto che in tanti hanno provato ad aiutare: da tempo viveva nuovamente in strada, aveva rifiutato il ricovero in ospedale.
La morte di un senza tetto, “un grido di responsabilità collettiva, tentammo di aiutare” è il ricordo dell’associazione “Sa Mata, l’albero delle idee”.
“Un uomo che la vita aveva messo alla prova duramente e che, malato da sabato, aveva rifiutato di essere portato in ospedale, nonostante i quattro giorni di sofferenza.
Era il 31 gennaio 2025 quando mi accorsi che alla fine della lunga via Cagliari, ad Assemini, sotto un portico di una ex profumeria, dormiva una persona. Mi avvicinai e gli dissi: “Marco, sei tu?” Dormiva profondamente, avvolto da sei coperte e non rispose. Quel giorno non avrei mai immaginato che sarebbe stato l’ultimo in cui avrei visto Marco. Ci avevano detto che Marco doveva “toccare il fondo” per poter riprendersi, che alcuni senzatetto avrebbero scelto la strada perché “a loro piace”. Avevamo sentito dire che “avevano fatto di tutto per lui” e che, in fondo, era lui a dover cambiare. Ma ora, davanti alla sua morte, mi chiedo: questa è davvero la verità? Vogliamo davvero credere che la responsabilità di un uomo che muore per strada non appartenga anche a noi? E soprattutto, vogliamo davvero pensare che un uomo che non ha nulla, neppure un tetto sopra la testa, possa sentirsi in grado di cambiare la propria vita senza il sostegno concreto della comunità? È difficile non sentire il peso di questa domanda. Mi viene in mente una conversazione che ho avuto con Marco qualche tempo fa. Mi disse: “Veronica, se sto in strada almeno parlo con qualcuno. Le signore tutti i giorni mi salutano, scambiano due chiacchiere con me. Io non mi ci vedo proprio in un appartamento da solo a guardare la parete”. La solitudine, l’isolamento, la mancanza di contatti umani sono a volte più difficili da sopportare di quanto non lo sia la condizione di chi vive per strada. E se anche il nostro aiuto non basta, la nostra umanità, almeno, dovrebbe.La morte di Marco non può essere solo un fatto isolato, ma deve farci riflettere su come trattiamo le persone vulnerabili e fragili. Non possiamo continuare a pensare che il loro destino sia una loro scelta, un percorso che possono percorrere o meno, a loro discrezione. La strada non è una via da percorrere per “piacere”, è l’ultimo rifugio di chi ha perso tutto, è l’epilogo di una storia che spesso non vediamo, ma che c’è e ci riguarda.
Cara Assemini, cara comunità, la morte di Marco ci interroga e ci chiede di fare di più. Marco, riposa in pace, ora sei libero. Ma noi, come comunità, lo siamo davvero?”.
Così ricorda Veronica Matta che si è sempre prodigata per Marco.
La morte di un senza tetto, “un grido di responsabilità collettiva, tentammo di aiutare” è il ricordo dell’associazione “Sa Mata, l’albero delle idee”.
“Un uomo che la vita aveva messo alla prova duramente e che, malato da sabato, aveva rifiutato di essere portato in ospedale, nonostante i quattro giorni di sofferenza.
Era il 31 gennaio 2025 quando mi accorsi che alla fine della lunga via Cagliari, ad Assemini, sotto un portico di una ex profumeria, dormiva una persona. Mi avvicinai e gli dissi: “Marco, sei tu?” Dormiva profondamente, avvolto da sei coperte e non rispose. Quel giorno non avrei mai immaginato che sarebbe stato l’ultimo in cui avrei visto Marco. Ci avevano detto che Marco doveva “toccare il fondo” per poter riprendersi, che alcuni senzatetto avrebbero scelto la strada perché “a loro piace”. Avevamo sentito dire che “avevano fatto di tutto per lui” e che, in fondo, era lui a dover cambiare. Ma ora, davanti alla sua morte, mi chiedo: questa è davvero la verità? Vogliamo davvero credere che la responsabilità di un uomo che muore per strada non appartenga anche a noi? E soprattutto, vogliamo davvero pensare che un uomo che non ha nulla, neppure un tetto sopra la testa, possa sentirsi in grado di cambiare la propria vita senza il sostegno concreto della comunità? È difficile non sentire il peso di questa domanda. Mi viene in mente una conversazione che ho avuto con Marco qualche tempo fa. Mi disse: “Veronica, se sto in strada almeno parlo con qualcuno. Le signore tutti i giorni mi salutano, scambiano due chiacchiere con me. Io non mi ci vedo proprio in un appartamento da solo a guardare la parete”. La solitudine, l’isolamento, la mancanza di contatti umani sono a volte più difficili da sopportare di quanto non lo sia la condizione di chi vive per strada. E se anche il nostro aiuto non basta, la nostra umanità, almeno, dovrebbe.La morte di Marco non può essere solo un fatto isolato, ma deve farci riflettere su come trattiamo le persone vulnerabili e fragili. Non possiamo continuare a pensare che il loro destino sia una loro scelta, un percorso che possono percorrere o meno, a loro discrezione. La strada non è una via da percorrere per “piacere”, è l’ultimo rifugio di chi ha perso tutto, è l’epilogo di una storia che spesso non vediamo, ma che c’è e ci riguarda.
Cara Assemini, cara comunità, la morte di Marco ci interroga e ci chiede di fare di più. Marco, riposa in pace, ora sei libero. Ma noi, come comunità, lo siamo davvero?”.
Così ricorda Veronica Matta che si è sempre prodigata per Marco.










