La febbre a trentotto? “È durata un’ora, il raffreddore di più, un giorno”. Era l’undici ottobre quando un ragazzino di dodici anni di Sestu ha accusato dei sintomi che, negli ultimi mesi, possono essere riconducibili al Coronavirus. E sua madre, Valeria, 44 anni, (nome di fantasia) ha seguito le regole alla lettera. Telefonata al pediatra, richiesta di certificato per poter far tornare il suo piccolo a scuola e lo stop: “Deve fare il tampone”. Da quella telefonata sono trascorsi 24 giorni. Madre e figlio vivono “segregati, chiusi in casa, in attesa di poter eseguire il test”. La donna ha inviato una dettagliata email all’Ats: “Il medico ha ritenuto opportuno attivare il protocollo Covid-19 e procedere alla segnalazione a codesta Ats per l’effettuazione del tampone. Dal 12 ottobre siamo in isolamento fiduciario nell’attesa di ricevere una vostra chiamata. Sono trascorsi 20 giorni dalla segnalazione del pediatra, ma mio figlio non può uscire di casa, nonostante non presenti alcun sintomo influenzale”.
E anche lei, la 44enne, non sa più a che santo votarsi: “A questo punto dovrei forse fare il test a pagamento in un laboratorio privato. Non voglio però dover pagare, dove sono i miei diritti? Ho seguito tutte le indicazioni, ringrazio il medico per aver segnalato il caso di mio figlio, ma queste attese sono snervanti: alcune mie amiche, addirittura, appena hanno saputo dell’odissea che stiamo vivendo, mi hanno presa in giro, dicendo che avrei potuto dire una bugia al dottore per ottenere il certificato. Ma io, semplicemente, sono una persona onesta”.











