Sono seduto su una panchina al parco di Terramaini. Da qui il mondo sembra girare meno vorticosamente che per strada. Il flusso frenetico della vita urbana è trattenuto dalle chiome degli alberi. Le uniche cose che corrono sono persone che hanno cura della loro salute. Corrono, sudano, assumono brutte facce da sforzo. Altri portano uno o più cani a passeggio. Questi mi rilassano perché camminano a passo lento, non imprimono una direzione al cane. È il cane che guida, per un lasso di tempo è padrone del percorso. Si ferma, annusa, fa pipì. Il proprietario si ferma appresso al cane, attende che il cane riprenda il suo cammino. Questi mi rilassano.
Il mondo per strada gira e corre, si ferma a malapena la notte, ma non si può godere della pace perché la notte si dorme e quando si dorme non si può osservare la pace perché appunto si dorme.
Sono rimasto fuori dal giro, non lavoro, non ho idee, non ho denaro. Ho alcuni diritti tra cui votare e recarmi al più vicino ospedale se ho bisogno di un medicamento. Per il resto sono tagliato fuori. Non chiedo più lavoro, non me lo danno. Cioè non è che non lo chiedo più, se capita lo chiedo, ma non capita. Per strada tutti corrono per raggiungere un posto, devono sbrigarsi, corrono e sbraitano se qualcuno gli ostacola il percorso. Io non devo sbrigarmi, il mondo mi ha schizzato fuori dalla sua orbita. È diventato inaccessibile. Ci vorrebbe un impiego per riaccedere almeno al suo strato più superficiale. Non dico di penetrare dentro il suo sistema più comodo e redditizio, ma almeno a quello più epidermico.
Gli uccelli del parco volano da un albero all’altro. Nemmeno loro hanno pace, devono sbrigarsi per trovare cibo e sicurezza. Guardarli non mi rilassa perché sono frenetici, non hanno posa. Preferisco i cani quando sono soli col padrone. Quando la coppia è impegnata in una pacifica passeggiata. Quando, invece, un cane incontra un altro cane scoppia un casino. Ringhiano e abbaiano come se volessero scuoiarsi. Tendono la cinghia del guinzaglio, mostrano i denti. Non c’è nulla di pacifico in questo atteggiamento animale. Quando due cani si incontrano non mi sento al sicuro. La situazione diventa precaria e tiro su i piedi sulla panchina per sicurezza. A quest’ora del mattino non sono pochi gli avventori del parco. Molti corrono per motivi estetici e di salute. Alcuni sono giovani come me, forse non lavorano come me, ma corrono per sentirsi bene. Io non corro, ci ho provato, non mi ha fatto sentire bene. Ho corso per qualche minuto, ho sudato tanto e ho avuto dolori, mi sono dovuto sedere subito su una panchina.
La giornata è lunga da trascorrere. E non ha nemmeno tanto senso trascorrerla tutta da svegli. Io perlopiù dormo. Cerco di dormire il più possibile anche di giorno, così non mi accorgo della gente che corre e grida per strada.
Vicino al parco c’è un centro commerciale dove non vado quasi mai. Non ho nulla da comprare. Ci sono andato poche volte, ho visto alcuni oggetti molto belli che ho desiderato di possedere. Per esempio un telefono cellulare con le applicazioni per socializzare. Mi piacerebbe affondare la mia vita in quella finestra luminosa, sarebbe un modo per rientrare virtualmente dal mondo da cui sono stato schizzato fuori. Ricontatterei i vecchi amici che non vedo più perché loro lavorano, sono impegnati e il loro tempo libero lo trascorrono a vivere una vita diversa dalla mia. Vanno a bere una birra, al cinema, a fare shopping. Nel fine settimana, in auto, vanno lontano con la fidanzata. Queste cose le so e basta, me le raccontano quando ci incontriamo per caso. Qualche volta ho avuto l’impressione che alcuni di loro mi abbiano evitato, che abbiano fatto finta di non vedermi. Del resto cosa potrei dare loro che già non hanno? Se volessero invitarmi a bere una birra dovrebbero, appunto, invitarmi, nel senso che dovrebbero pagare loro, portarmi in macchina, riaccompagnarmi a casa. Sono un peso, non ho potere decisionale. Le uniche cose che posso fare sono dormire, andare a destra, a sinistra, indietro. Oppure stare fermo seduto su una panchina al parco.
Fortuna che la salute mi assiste. Cioè fisicamente sto bene. Forse sono depresso, ma fisicamente sto bene. A che serve stare bene a questo punto? Se stessi male, se avessi un dolore al ginocchio andrei all’ospedale e mi farei curare, starei seduto in sala d’attesa ad ascoltare gli altri che parlano sussurrando dei loro mali. Potrei fare amicizia con qualcuno e parlare di qualcosa. Invece sto bene. Di testa no, quella mi dà problemi, ma non è una vera malattia, basta dormire il più possibile e frequentare zone tranquille come questo parco.
Se capita di essere sbalzati fuori dal mondo, dalla società, è un disastro. Non ti sente più nessuno. Non è che la gente non ti ascolta, proprio non ti sente. Ho tentato di attaccare bottone con un signore anziano che si era seduto accanto a me sulla panchina del parco. Giusto due battute sul tempo un po’ uggioso e sulla precarietà della vita. Mi ha risposto a monosillabi poi si è alzato e ha ripreso il suo cammino.
La vita ha il problema della finitezza. Inizia e finisce coprendo un lasso di tempo medio. In questo tempo medio ci dovresti infilare tutto nei tempi prestabiliti. C’è un tempo per essere giovani, divertirsi, trovare lavoro e fidanzarsi. Poi si matura, ci si sposa, si fanno i figli. Io l’avevo imboccata la strada giusta, sono andato a scuola, mi sono diplomato, ho frequentato l’università sbagliando facoltà. Ho iniziato a ingegneria, ma era troppo pesante per me, poi mi sono iscritto a giurisprudenza, non sono riuscito a superare nemmeno il primo esame. A filosofia non ci capivo più nulla, intanto i primi colleghi andavano avanti. Oggi alcuni di loro sono ingegneri. Chi ha mollato prima di laurearsi si è trovato una collocazione nel mondo. A me sono bastate queste manovre sbagliate all’università e la società non mi ha perdonato. Dopo quattro anni di vagabondaggio da una facoltà all’altra non ero più un neodiplomato, non avevo le competenze per il mondo del lavoro, non avevo le amicizie giuste, le entrature, le chiavi, le toppe per rimediare a un fallimento. È stato il momento dello sbalzo. Mi sono ritrovato per strada frastornato. Ho smarrito la via e sono andato in confusione. Di tutto il pastrocchio che mi circonda solo qua al parco trovo un po’ di pace. Cerco sempre di sedermi sulla stessa panchina, mi rincuora sedermi sulla stessa panchina e avere più o meno lo stesso punto di vista ogni giorno. Per arrivarci devo camminare lungo la trafficatissima via Vesalio, dove le auto sfrecciano verso precise mete a me sconosciute. Poi varcata la soglia del parco tutto si trasforma, il mondo smette di girare furioso e io vado a cercare la solita panchina. Questo mi rilassa.
Giavi












