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Dimagrire, il senso del gusto: la mappa dei sapori per uno stile alimentare corretto

di Raffaella Aschieri
24 Agosto 2018
in area-vasta, rubriche

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Dimagrire, il senso del gusto: la mappa dei sapori per uno stile alimentare corretto
Il Senso del Gusto
a cura di Raffaella Aschieri (DietistaMenutrix)
Chi si occupa di Nutrizione Umana, di Alimentazione e Ristorazione non puèò non occuparsi del Senso del Gusto in tutte le sfaccettature da quelle biochimiche a quelle storiche-filosofiche e di costume. Se è vero che siamo ciò che mangiamo in questo ordine il senso del gusto è il nostro maggiore alleato nella ricerca di uno stile alimentare corretto. Tanto piu è grande il senso del gusto tanto piu la nostra dieta quotidiana sarà variegata e ricca di ingredienti e nutrienti diversi. Piu il senso del gusto è coltivato e stimolato più grande sarà la possibilita di prevenire l obesità e il sovrappeso. Come nasce il senso del gusto ? Gusto amaro, gusto salato, gusto dolce e gusto acido e, da poco nel mondo occidentale ma da sempre nel mondo orientale, il gusto umami: queste sono i principali sapori che le nostre papille sono in grado di percepire e di riconoscere. Il senso del gusto è già presente in ambiente intrauterino ed è collegato al senso dell’olfatto: il piccolo feto, infatti, attraverso il vomeronasale riesce a sentire odori, sapori e a discriminarli. Odori e sapori lo stimolano continuamente, le papille gustative sono attive dalla 14ª settimana e la deglutizione compare già alla 12ª, permettendo al feto di reagire in modo diverso agli elementi introdotti nel liquido amniotico:quando vengono introdotti sapori dolci, il gusto si attiva piacevolmente, facendo aumentare considerevolmente il numero delle deglutizioni; il contrario accade quando vengono introdotte nel liquido amniotico sostanze amare e poco gradevoli: il gusto le riconosce e immediatamente le deglutizioni rallentano in maniera consistente.Ma questa è un’altra storia che tratterò in altro ambito.
Il senso del gusto: la mappa dei sapori
Il gusto viene quindi percepito quando introduciamo del cibo in bocca, ma non tutta la bocca è deputata in modo indifferenziato alla percezione dei sapori.Esiste però una mappa dei sapori,nel senso che esistono delle aree della lingua dove un certo tipo di gusto viene percepito prima,dove la soglia di sensibilità per quello specifico gusto è più bassa. In particolare: sul fondo abbiamo i recettori del gusto amaro, nelle aree antero-laterali quelli del salato, in quelle postero-laterali i recettori del gusto acido e sulla punta i recettori del gusto dolce. Ma la percezione del gusto avviene anche attraverso recettori situati sull’epiglottide e il palato molle. E il gusto umami? L’umami è stato identificato nei primi del ‘900: ci si rese conto che il tipico brodo di alghe e pesce giapponese aveva un gusto proprio che non poteva essere classificato all’interno di uno dei quattro gusti già noti. Kikunae Ikeda lo individuò: era il glutammato, un aminoacido presente nelle proteine sia animali che vegetali e fornisce al cibo il tipico gusto sapido, che non è salato ma dà sapore. Da noi l’umami, è diventato un gusto noto e riconoscibile da poco, ovvero da quando abbiamo scoperto i sushi bar non solo come luoghi cool, trendy, chic, ma come un vero inno al gusto e ai suoi sapori. Nell’ultimo decennio invece si parla sempre di più del sesto sapore che chiama in causa il grasso con una proteina responsabile la CD36 e dalla quale potrebbe dipendere una minor o maggior propensione all’obesità e ci si avvia verso il settimo sapore. Secondo il team americano, autore della ricerca, le nostre scelte dietetiche potrebbero essere condizionate da un particolare gene, il CD36, che regola la sensibilità ai sapori grassi. Più questo gene è attivo, e quindi più proteina CD36 viene prodotta, e maggiore è la sensibilità al gusto “fat al gusto per i cibi grassi”. Al contrario, esiste una variante “pigra” del gene che riduce la sensibilità ai grassi, spingendo dunque a mangiarne di più per soddisfare il palato, ipotizzano i ricercatori. Una mutazione “sfortunata”, ad alto rischio obesità, che interesserebbe fino al 20% della popolazione: una persona su 5. IL GUSTO e la GENETICA Numerose ricerche hanno scoperto che i gusti alimentari di un individuo trovano origine già all’interno del grembo materno perché molto dipende dalla dieta seguita dalla madre, che influenza il sapore e l’odore del liquido amniotico, nel quale il bambino è immerso e che viene parzialmente deglutito dal feto. E non ci sono dubbi che le abitudini alimentari si apprendano in famiglia e che il comportamento dei genitori a tavola influenzi quello dei figli. Ma negli ultimi anni si è diffusa una nuova concezione relativa alla percezione del gusto che richiama in prima linea il ruolo svolto dai geni.Si chiama ‘genetica del gusto’, secondo la quale la percezione dei quattro gusti fondamentali (aspro, dolce salato e amaro) dipende anche dal patrimonio genetico. Alcuni studi recenti sono riusciti a collegare almeno 3 recettori per il gusto dolce (T1Rs) e ben 30 per il gusto amaro (T2Rs) e i ricercatori sono certi che non ci si fermi qui e che molti geni collegati alla percezione dei sapori debbano ancora essere scoperti. Le domande sono molte e particolarmente interessanti: perché una cucina regionale è particolarmente piccante e un’altra invece è particolarmente dolce? Ciò dipende dalle abitudini apprese in famiglia o gioca un ruolo fondamentale anche il Dna delle popolazioni? Per cercare di rispondere a questi interrogativi alcuni ricercatori hanno ripercorso il viaggio di Marco Polo lungo la Via della Seta per studiare le abitudini alimentari di alcune remote popolazioni, effettuando anche dei campionamenti di Dna e analizzando la relazione tra preferenze alimentari e 26 geni candidati per il gusto. I risultati hanno mostrato, ad esempio, che il gene ITPR3 è associato ad almeno 36 preferenze alimentari. Il senso del gusto secondo i filosfi e i pensatori di tutti i tempi. La tradizione filosofica occidentale che ci riporta almeno a duemilacinquecento anni fa, e che ha fortemente condizionato il nostro modo di sentire, di percepire e anche di pensare la realtà,ha collocato il fulcro della nostra razionalità nella vista e nell’udito, i sensi ‘cognitivi’, a scapito del tatto e specialmente del gusto e dell’olfatto, relegati al rango di sensi ‘minori’. Le ragioni di questa marginalizzazione vanno ricercate anzitutto nell’atteggiamento razionalistico dominante in questa tradizione, che ha fatto del dualismo mente-corpo un suo tratto caratteristico, riprodotto in altre dicotomie ancora oggi centrali negli studi sulla conoscenza, sulla mente e sulla percezione: intelletto vs sensibilità, ragione vs passione, astratto vs concreto, attivo vs passivo, cultura vs natura, computazionale vs neurale (riferita, quest’ultima, ai due contrapposti paradigmi delle attualissime scienze cognitive). Troppo impegnati a pensare e a esaltare le abilità intellettuali,i filosofi hanno finito col dimenticare di avere un corpo dotato di sensi che mediano il rapporto con la realtà.Sebbene in questo panorama non siano mancati i paladini della conoscenza sensibile, a partire da Protagora, Aristotele, Epicuro, Lucrezio, Tommaso d’Aquino, fino ai materialisti, ai sensisti e agli empiristi del Seicento, del Settecento e dell’Ottocento, la speculazione filosofica ha mantenuto un prevalente atteggiamento di ‘cecità cognitiva’ nei confronti della conoscenza sensibile e in particolare nei confronti dei sensi più compromessi con l’esperienza corporea, con il desiderio e con i bisogni primari legati alla sopravvivenza, sottovalutandone il ruolo nella conoscenza del mondo circostante.
Diversamente dal vedere, dall’udire e in qualche misura anche dal toccare — comportamenti coscienti e misurabili, fonti più affidabili e necessarie di conoscenza del mondo — , gustare e annusare, le due modalità chimiche di accesso alla realtà esterna, sono comportamenti associati all’animalità, intimamente connessi con le emozioni e con gli appetiti, temuti per la loro capacità di scatenare passioni primarie talvolta incontrollabili. Se la vista e l’udito sono sempre pronti e attivi (o almeno così crediamo), il gusto agisce occasionalmente, mentre l’olfatto pur essendo l’unico senso sempre attivo perché connesso alla respirazione è un dispositivo sensoriale di cui siamo poco consapevoli, e questo contribuisce a spiegarci perché siamo meno esperti nel gustare e nell’annusare anziché nel vedere e nell’udire. Si aggiunga che la soggettività delle impressioni forniteci da questi sensi è di solito analizzata in una forma centrata sul soggetto percipiente anziché sull’oggetto, e ciò acuisce la difficoltà a trasformare le sensazioni del palato e del naso in oggetti stabili, circoscrivibili e pertanto condivisibili attraverso il linguaggio.Gustare e annusare sono esperienze per così dire ‘private’, intime (due individui distinti non possono godere dello stesso oggetto contemporaneamente e ricavarne le medesime sensazioni), variabili, con un raggio d’azione estremamente limitato rispetto ai sensi della ‘distanza’, la vista e l’udito, e per ciò stesso non sono facilmente comunicabili come i nostri sensi ‘pubblici’. Ecco perché sono ritenuti inaffidabili dal punto di vista della conoscenza e conseguentemente sono poco esercitati nella cultura occidentale, che di certo non si è preoccupata dell’educazione del gusto e dell’olfatto. La ‘prossimità’ caratteristica del gusto (il suo dover entrare direttamente in contatto con gli oggetti) è peraltro tale da esporre al rischio di far confondere soggetto e oggetto percepito che, diventando addirittura un’unica entità, ostacolano l’analisi e il giudizio della cosa gustata da parte di chi la gusta. Diversamente dal gusto (e dal tatto, l’altro senso di contatto), la vista e l’udito invece agiscono a distanza dai loro oggetti, un’altra ragione della loro presunta superiorità sul piano epistemologico e della loro elezione a unici delegati della conoscenza. La svalutazione filosofica dei nostri sensi più carnali si è spinta al punto da contaminare l’arte, in quanto forma di conoscenza affidata ai sensi. L’estromissione della sensibilità materiale dai giudizi artistici è sancita chiaramente da Hegel: «il sensibile dell’arte si riferisce solo ai due sensi teoretici della vista e dell’udito, mentre risultano esclusi dal godimento artistico olfatto, gusto e tatto. Infatti questi tre sensi hanno da fare con la materialità come tale e con le sue qualità immediatamente sensibili […] » (1823: 48). E se la pittura, la scultura, l’architettura, la musica, la danza, la poesia e il cinema sono annoverate storicamente tra le arti per definizione, alla culinaria e alla distillazione (preparazione di alcolici) — strettamente legate al gusto — come anche alla profumeria (creazione dei profumi) — espressione della genialità dei ‘nasi’ — , si fatica ancora a riconoscere tale statuto. Assimilando la culinaria alla retorica, già Platone le aveva negato dignità artistica, considerandola una pratica empirica finalizzata al piacere e al diletto più che una forma di conoscenza (Gorgia 462d, 522a). E d’altra parte, come osserva N. Perullo (2006: 52), «la caratteristica di scomparire, consumati, apparentemente senza tracce residue, fa dell’esperienza degli oggetti alimentari qualcosa che appare irriducibile a una dimensione puramente museale, conservativa o replicativa». Nel dominio della gastronomia fa eccezione solo il vino, che una relativa capacità di conservazione avvicina all’opera d’arte: non a caso esistono i collezionisti di vini, comparabili ai collezionisti di quadri, mentre non si danno collezionisti di pietanze, semmai di ricette o di ricordi saporiti. Appunto per il loro carattere viscerale e affettivo, gusto e olfatto hanno finito per rappresentare facoltà del tutto opposte all’intelletto. Ma nonostante questa svalutazione filosofica, la capacità — immanente al gusto — di giudicare gli alimenti e di apprezzarli si riflette nel linguaggio comune in virtù dell’analogia tra il sapere e il sapore, semanticamente imparentati al latino sapio nel senso di percepire con giustezza, conoscere. Il sapiente è colui che vuole assaporare, fiutare, arguire: sapore deriva quindi da sapere nel senso di ‘aver gusto’, aver odore’. E l’olfatto, poi, se da una parte è intimamente legato all’intelligenza del corpo, agli appetiti, alla sessualità, dall’altra parte, nell’immaginario sociale e in molte espressioni colloquiali dettate dal senso comune, ha un nesso privilegiato con la conoscenza, è sinonimo di buon senso, di acume intellettuale: ‘sagace’ deriva dal latino sagire, ‘fiutare’, e ancora oggi è sinonimo di prontezza cognitiva, di istinto infallibile, di quel ‘sesto senso’ o senso della conoscenza intuitiva celebrato dal più olfattivo dei filosofi, Nietzsche, che non esitava ad affermare «il mio genio è nel mio naso» (1888: 128), additando nel fiuto uno strumento sottile di conoscenza. Di una persona dotata d’intuito, in genere si dice che ‘ha naso’, capacità cioè di cogliere subito ciò che il cervello comprendere più lentamente. Ma ‘avere naso’ significa anche essere capace di riconoscere ciò che altri non percepiscono. Certo non si può dire che nella storia della filosofia manchino considerazioni occasionali sul senso del gusto, sul cibo, sulla cucina o sull’alimentazione, né tanto meno sul mangiare e sul bere. Studiato soprattutto come una forma di conoscenza sensibile, nonché del rapporto tra il soggetto e l’oggetto della conoscenza, l’argomento tuttavia non è stato mai oggetto di trattazioni sistematiche: l’eccessivo coinvolgimento con il corpo, con la sfera affettiva e passionale e con i piaceri frivoli (per lunghissimo tempo rimossi nella nostra cultura anche per effetto della tradizione cristiana e della sua condanna dei piaceri del corpo), e la debole attitudine cognitiva hanno determinato l’esclusione del gusto dalla ricerca filosofica. Nell’ultimo ventennio, comunque, non sono mancati lavori filosofici orientati sul tema del gusto materiale e del cibo a esso connesso, una facoltà di cui ci serviamo per conoscere quella sensazione complessa che è il sapore degli alimenti, una forma di sapere che coincide anche con un piacere. Tali lavori sono segno di un cambiamento motivato da un nuovo modo di intendere e di praticare la filosofia come quell’amore per la sapienza che dovrebbe includere il nostro modo di stare nel mondo e di conoscerlo come esseri fatti di corpo e di carne e non solo di mente.1 Una filosofia, insomma, attenta alle questioni inerenti l’esperienza quotidiana, questioni come gustare e apprezzare un alimento o una bevanda, entro cui piacere e conoscenza vengono a realizzare un’armonia talmente perfetta che questo solo dato sarebbe a nostro avviso sufficiente a eleggere il gusto materiale a oggetto d’interesse filosofico. Riservare al senso del gusto l’attenzione che merita può allargare il nostro modo di stare al mondo e di valutarlo, permettendoci di assaporarlo con maggiore consapevolezza, senza contare poi il contributo che questo tipo di ricerche può apportare alla comprensione del ruolo dell’esperienza corporea nella conoscenza. Riferimenti bibliografici Aristotele, Del senso e dei sensibili, trad. it. in Opere, vol. 4, Laterza, Roma-Bari, 1998, pp. 195-236.Aristotele, Dell’anima, trad. it. in Opere, vol. 4, Laterza, Roma-Bari, 1983, pp. 97-191.Aristotele, Etica eudemia, trad. it. in Grande etica. Etica Eudemia, Laterza, Bari, 1965, pp. 97-284.Aristotele, Etica nicomachea, trad. it. Laterza, Bari, 1957.Aristotele, Metafisica, trad. it. Laterza, Bari, 1928.Cartesio R., 1637, Diottrica, trad. it. in Opere scientifiche, II vol., UTET, Torino, 1983.Cartesio, 1641, Meditazioni sulla filosofia prima, trad. it. in Opere filosofiche, UTET, Torino, 1994, vol. 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Raffaella Aschieri
Tags: dimagriresenso del gusto
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