Mamma Romina, papà Gianluca, Giacomo e Alessandro sono i componenti della bella famiglia di Quartu che da due anni, nonostante l’amore che li lega gli uni agli altri, non può vivere unita come le altre. “ Io e Alessandro, mio figlio, che ha 14 anni e tra qualche giorno sosterrà l’esame di terza media, viviamo alla casa famiglia di viale Colombo- racconta Romina Marcia, 44 anni- mentre mio marito e Giacomo, che ha 25 anni, dormono invece in uno sgabuzzino presso alcuni parenti. Ci vediamo soltanto in occasione dei pasti, che consumiamo tutti insieme a casa di mia sorella. Sono quelli i momenti di rara felicità in cui possiamo tornare a sentirci una famiglia qualunque, ma durano poco”.
I guai della famiglia Congera iniziano nel 2012, quando Romina Marcia e suo marito perdono il lavoro: “ L’azienda di pulizie dove lavoravo da oltre 10 anni è fallita e io, come tante altre, siamo state licenziate. Gianluca lavora a giorni alterni come pescatore di vongole e quando non siamo più riusciti a pagare l’affitto, siamo stati sfrattati. Non sapevamo dove andare. Abbiamo occupato per 11 mesi un monolocale vuoto del Palazzo della Solidarietà, di proprietà comunale, sito in via Cilea. Vivevamo all’ultimo piano, mentre i volontari del Quartu Soccorso si trovavano al secondo. Ci davano una mano e la convivenza era più che pacifica. Se anzi avanzavano dei viveri, ce ne facevano dono. Ebbene, siamo stati sgomberati anche da lì e mi sono trovata a dormire in macchina con mio marito per una settimana, mentre i miei figli venivano ospitati da alcuni parenti. Superfluo raccontare il dolore di quei momenti”.
Poi, nel 2014, l’arrivo all’housing sociale gestita dalla Caritas San Luca, che da anni ospita donne e bambini in difficoltà, ma non accoglie uomini. Marito e primogenito sono costretti a separarsi da Romina e Alessandro. “Dovevo tutelare mio figlio minorenne. Sin dal nostro arrivo, dal termine della convenzione tra Caritas e Comune, l’associazione ha affermato di non poter più sostenere le spese per il mantenimento della struttura. La luce è stata staccata perché nessuno pagava le bollette. Non abbiamo la chiave e questo significa non poter disporre della nostra libertà. Ci sentiamo prigioniere” afferma Romina, parlando anche a nome dei suoi coinquilini: una giovane di vent’anni, suo fratello di appena un anno, e la madre di entrambi. Anche loro sono una famiglia divisa. “ Tre mesi fa abbiamo ricevuto una lettera di sfratto anche da qui. I servizi sociali mi hanno dato una caparra di 1.250 euro. Avrei voluto restituirli, ma mi hanno detto di tenerli nella speranza di trovare casa. Nessuno mi affitterebbe mai un’abitazione senza garanzie. Sono disponibile a rendere la caparra perché non cambierebbe la mia situazione.” “ L’assessore ai servizi socio assistenziale Marina del Zompo ci ha ricevute una volta soltanto. Abbiamo manifestato fuori dal Comune in una decina, e quando è arrivata ci ha assicurato dicendo di non riusciva a prender sonno pensando alla nostra situazione. Ha persino preso i nostri nominativi, ma nonostante questo non ci ha mai richiamate. Non c’è un delegato area che ascolti le situazioni di persone senzatetto, ed è vergognoso che le ultime case siano state assegnate oltre vent’anni fa. Il Comune non si esprime, temporeggia, se ne lava le mani.
Martedì scorso in Aula Consiliare c’è stata un’irruzione di alcune donne disperate che reclamavano i diritti loro garantiti dalla 162”. “Io- conclude la donna-non chiedo molto: solo un alloggio in cui vivere con la mia famiglia, e un lavoro che ci restituisca la dignità, e se un impiego per entrambi non fosse possibile, almeno per me o mio marito. Non è bello vivere di assistenzialismo e io ho un figlio adolescente che ha bisogno dell’appoggio e della vicinanza di una figura paterna. Voglio soltanto vedere la mia famiglia riunita. È forse chiedere troppo? ”.











