Per la rubrica l’Angolo dei Lettori pubblichiamo la testimonianza di un giovane soccorritore sardo, Filippo Usai, impegnato più che mai in insieme ai suoi colleghi del 118 nell’emergenza coronavirus. Racconta le difficoltà di lavorare in un momento come questo e di una categoria troppo spesso bistrattata.
“Ho iniziato questo cammino da bambino. Come fosse una vocazione, una chiamata, aiutare gli altri e la passione per il soccorso. Man mano che sono passati gli anni ho cercato di approfondire e studiare per cercare di fare diventare ciò che era una passione una professione. In tutto questo non ho mai perso l’obiettivo principale con cui sono entrato sul palcoscenico di questo mondo: l’amore disinteressato per il prossimo, soprattutto nel momento più difficile della vita, nella sofferenza del paziente. In un momento come questo, che nessuno si sarebbe mai aspettato, in cui il mondo si è trasformato sotto tanti punti di vista mi rendo conto di quanto la mia scelta di mettermi a disposizione dell’altro mi sta dando soddisfazioni nonostante tutto. Nonostante i turni stressanti e stancanti, soprattutto dal punto di vista psicologico, perché vi assicuro che la stanchezza fisica col riposo passa, ma quella psicologica è tutta un’altra storia. Nonostante l’ansia per me e per i miei colleghi, tante volte, anzi troppe, dimenticati dalle istituzioni e mandati a combattere faccia a faccia una guerra, troppo spesso lavandosene le mani. Ma quando uno ci mette la passione e il cuore tutto il resto passa in secondo piano. Anche quando il prezzo da pagare potrebbe essere la vita. Nonostante la paura, perché credetemi, chi dice che non ha paura è un incosciente; e questo non è un lavoro che può essere fatto senza coscienza. La paura fa parte di questo mondo, ma dev’essere una paura costruttiva, che ci spinge a usare la testa in ogni situazione, perché di mezzo non c’è solo la tua vita ma anche quella dei tuoi colleghi prima e dei tuoi familiari dopo quando torni a casa. Siamo l’ultima ruota del carro, ma allo stesso tempo i primi ad arrivare dal paziente. Siamo quelli meno considerati da tutti ma allo stesso tempo il primo anello della catena del soccorso e troppe volte sfruttati, calpestati, non valorizzati e lasciati in balia di decisioni di politicanti che non hanno ancora capito il valore di un servizio primario e basilare. Sono nato da volontario e non lo rinnego. Se oggi sono qui lo devo anche a questo. Ma quando inizi a farlo tutti i giorni, arrivi ad una consapevolezza tale per cui capisci che il volontariato non può sostituire lo stato. Il 118 non può basarsi sul volontariato. È un servizio delicato, che richiede alta professionalità e specializzazione, perché chi sta dall’altra parte ha bisogno di soccorso degno di essere chiamato così. Dovrebbe essere finita l’era di indossare una divisa per avere visibilità, l’era in cui basta avere due corsi in croce e si può salire in ambulanza, l’era in cui tante, troppe persone non hanno capito cosa significa gestire un’emergenza. Non è una passeggiata. E allora, se siamo arrivati a oggi e ancora la situazione non ha una svolta definitiva, capisco che alla politica fa comodo tutto questo. Perché le associazioni (la maggior parte) sono solo bacino di voti per politicanti; perché il volontariato fa comodo a chi ci governa, che anziché formare e pagare del personale sanitario professionale preparato preferisce dare qualche contributo e mettere la salute dei pazienti nel soccorso in mano a troppe persone che non sono all’altezza di ciò che andrebbe fatto. Perché se a oggi, neanche davanti ad una pandemia, una guerra senza armi visibili, ma che sta seminando morte e terrore, chi ci amministra e governa non ha capito la gravità della situazione.. allora mi inizia a passare la voglia. Perché non puoi lavorare dodici ore al giorno per un misero stipendio (Le condizioni dell’attuale convenzione, ormai prorogata all’infinito, non permettono di meglio a chi con fatica cerca di mandare avanti una cooperativa). Perché non puoi salire su un’ambulanza ed arrivare a gestire un’emergenza senza la giusta preparazione, che dovrebbe essere a carico delle istituzioni, e invece per coscienza lo fa l’operatore. Perché stai svolgendo un servizio mettendo anima e cuore tutti i santi giorni, in questa situazione più che mai, e a oggi non siamo inquadrati professionalmente e economicamente e ancora meno valorizzati per ciò che ogni giorno siamo chiamati a fare: Salvare una vita. Non siamo eroi. Ci siamo stancati di essere definiti tali. Siamo semplicemente padri, madri, ragazzi che credono in quello che fanno e con ancora un sogno nel cassetto: avere la dignità per la professione che svolgiamo”.












