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La crisi in Sardegna ai raggi X: le donne la affrontano meglio

di Redazione Cagliari Online
21 Giugno 2017
in campidano, sardegna

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Come ogni anno Il Rapporto del CRENoS sull’Economia della Sardegna, giunto alla ventunesima edizione, si propone di fornire un contributo informativo sull’andamento dell’economia isolana e un valido strumento di valutazione delle decisioni di politica economica. Il messaggio principale che emerge dalla ricerca è purtroppo ancora molto simile a quello delle precedenti edizioni. L’economia sarda continua a perdere posizioni in Europa e, con riferimento agli ultimi anni, anche in Italia. Il fatto che, nel medio-periodo, la Sardegna recuperi posizioni in ambito nazionale e mostri spesso un risultato migliore rispetto alle regioni del Mezzogiorno non è di per se rassicurante, se si considera che ciò è dovuto più ad un risultato deludente dell’economia italiana nel suo complesso che ad una buona performance della nostra regione.

 

Prospettive a breve termine: i dati Istat 2014 non aprono all’ottimismo

Secondo molti autorevoli osservatori, la recessione italiana volge al termine. Il DEF (Documento di Economia e Finanza) recentemente presentato dal Governo Renzi prevede una crescita del PIL reale procapite dello 0,8% per il 2014 e dell’1,3% per il 2015. Il Fondo Monetario Internazionale e l’OCSE sono lievemente più pessimisti: le loro previsioni si attestano rispettivamente su un 0,6% e un 0,5% per il 2014 e un comune 1,1% per il 2015. Tuttavia i primi dati ufficiali del 2014, pubblicati pochi giorni fa dall’Istat, tendono a deludere questo pur cauto ottimismo: nel primo trimestre dell’anno il PIL è tornato a scendere su base congiunturale dello 0,1%, mentre sull’anno (rispetto al primo trimestre del 2013) il calo è stato dello 0,5%. L’Italia è ancora una volta fanalino di coda tra i grandi Paesi europei: la Germania e il Regno Unito crescono più del previsto (+0,8%) e la Francia è sostanzialmente stabile (+0,1%).

In questo quadro ancora critico, gli scenari delle economie locali elaborati da Prometeia prevedono che nel 2014 l’economia della Sardegna continui a perdere posizioni rispetto alla media italiana, indicando una crescita nulla del PIL regionale. Lo scenario atteso per il 2014 rifletterebbe principalmente l’andamento dei consumi (stazionari sia per le famiglie che per la Pubblica Amministrazione), mentre gli investimenti fissi lordi dovrebbero subire una contrazione minima (-0,1%). La ripresa della crescita è attesa per il 2015 (+0,7%). La domanda interna dovrebbe aumentare sia dal lato dei consumi (+0,4%) che dal lato degli investimenti fissi lordi (+1,9%).

 

Il quadro macroeconomico: il preoccupante crollo della domanda interna

Dall’analisi del quadro europeo i dati del PIL ci mostrano un’Italia in difficoltà: tra il 2010 e il 2011 il reddito di quasi tutte le regioni italiane è in contrazione rispetto alla media europea (le uniche eccezioni sono il Veneto, l’Emilia-Romagna e l’Abruzzo, che non modificano la loro posizione relativa). In questo scenario con molte ombre si accentua il divario tra le regioni del Centro-Nord e quelle del Mezzogiorno, investite in pieno dalla fase recessiva. Anche la Sardegna perde terreno: nella classifica della ricchezza prodotta si trova alla 190° posizione su 272 regioni europee, con un PIL procapite regionale pari al 77% della media europea, in caduta rispetto al 78,3% del 2010 e all’80,3% del 2009.

L’analisi dei dati a livello nazionale conferma per tutte le ripartizioni geografiche italiane il progressivo calo della ricchezza prodotta. Per la Sardegna, dopo un triennio in cui il PIL pro capite era rimasto pressoché costante, al contrario di quanto accadeva nel resto delle ripartizioni italiane, il 2012 ha una forte valenza negativa: il PIL scende del 3,3% rispetto all’anno precedente e tocca i 17.500 euro per abitante (contro una media nazionale di 23.300).

La situazione non è migliore sul lato della domanda interna. I consumi pro capite delle famiglie sarde, dopo la leggera flessione del 2011, segnano nel 2012 un preoccupante calo (-3,5% rispetto all’anno precedente), di poco inferiore al corrispondente dato nazionale (-4,2%).Gli investimenti fissi lordi pro capite sono la grandezza macroeconomica che mostra la più ampia contrazione (-13,8% dal 2011 e -40% dal 2007), soprattutto se paragonata al resto del Paese che vede una diminuzione di 2,4 punti nell’ultimo anno.Il crollo degli investimenti fissi lordi in Sardegna (scesi nel 2011 al 67% della media nazionale), non è per altro compensato da un aumento della spesa pubblica in conto capitale la quale, pur presentando una leggera variazione positiva nell’ultimo anno, è anch’essa in forte calo rispetto agli anni pre-crisi (circa 1.500 euro pro capite nel 2011 contro un picco di quasi 2.400 euro nel 2005).

La struttura produttiva: la frammentazione non supporta la ripresa economica

Sul fronte della struttura produttiva, nel 2012 si registrano in Sardegna 146.525 imprese (89 ogni mille abitanti), dato in continua diminuzione dal 2008 (quando erano circa 151 mila), in linea con la tendenza nazionale. Il contesto regionale si caratterizza per una elevata frammentazione delle attività produttive (la dimensione media è pari a 2,7 addetti per impresa contro la già bassa media nazionale di 3,7) e da un basso turnover lordo d’impresa (13,1% nel 2012), che segnala una scarsa vivacità in entrata e in uscita dal mercato, legata alla difficoltà nella creazione di nuove attività imprenditoriali e ad un mancato ricambio. Dal punto di vista della composizione settoriale, emerge la forte vocazione agro-pastorale dell’isola: il settore primario concentra il 24% delle imprese regionali, contro un corrispettivo nazionale del 16%. Per contro, le imprese agricole (quasi un quarto del totale) creano nel 2012 solo il 3,2% del valore aggiunto sardo. Inoltre, i due settori capaci di esprimere un maggiore valore aggiunto scontano un sottodimensionamento rispetto al dato italiano: l’industria in senso stretto raccoglie meno dell’8% delle imprese sarde (contro il 10% nazionale), e questa differenza si fa ancora più marcata per quella componente dei servizi, legati alle attività immobiliari, professionali e ai servizi alle persone, capace di esprimere maggiore produttività: in Sardegna solo il 15% delle imprese attive opera in questo settore, mentre in Italia il valore medio sfiora il 22%.

Secondo gli ultimi dati Istat, nel 2012 il valore aggiunto totale della Sardegna risulta pari a 26 miliardi e 112 milioni di euro, in forte contrazione rispetto all’anno precedente (-3,1%). Il decremento colpisce tutti i settori produttivi, ma i due che maggiormente vi contribuiscono sono l’industria in senso stretto e il settore edile, che perdono rispettivamente 9,8 e 9,7 punti percentuali. Il segnale sembra dunque essere, da un lato, quello di una pressante necessità di investimenti da parte del sistema produttivo regionale per accrescere la competitività delle aziende; dall’altro sarebbe necessario puntare su nuovi settori, più dinamici, tipici del settore terziario, che rappresenta, in termini percentuali, il maggior contributo alla produzione del valore aggiunto regionale (circa l’83%), livello superiore anche rispetto ad altri contesti territoriali.

Una considerazione particolare va fatta anche sul grado di apertura dell’economia isolana ai mercati esteri. Il 2013 segna un interscambio per la Sardegna in forte contrazione rispetto all’anno precedente, determinato dalla concomitante diminuzione delle esportazioni (-15,5%) e delle importazioni (-9,2%). Come di consueto emerge la forte dipendenza dell’export regionale dal settore petrolifero: a fronte di 5 miliardi e 392 milioni di euro del totale esportazioni, la quota dei prodotti petroliferi raggiunge l’84%, seppur le vendite siano in calo in seguito al peggioramento delle condizioni di domanda delle maggiori economie dell’area euro. Vogliamo tuttavia segnalare la performance positiva del settore alimentare, considerato strategico per l’economia regionale, che si dimostra capace di cogliere le opportunità rappresentate dai mercati esteri e diventa nel 2013 il terzo settore sia per valore delle esportazioni (+10% rispetto al 2012), sia per il saldo della bilancia commerciale.

 

Il mercato del lavoro: la grande emergenza disoccupazione e il fenomeno dello scoraggiamento

La situazione generale del mercato del lavoro regionale e nazionale nel 2013 appare peggiorata rispetto all’anno precedente. La Sardegna presenta nel 2013 un tasso di disoccupazione del 17,5%, in aumento di 2 punti percentuali rispetto al 2012 per complessivi 117 mila disoccupati. Il quadro nazionale è ugualmente preoccupante: il tasso di disoccupazione cresce di 1,5 punti percentuali, dal 10,7% del 2012 al 12,2% del 2013, ed il numero dei disoccupati totali supera la soglia dei 3 milioni. La situazione nei primi mesi del 2014 non migliora: i dati nazionali sulla disoccupazione, pubblicati dall’Istat, mostrano un ulteriore peggioramento: a febbraio 2014 il tasso di disoccupazione nazionale si fissa al 13%.

Le misure complementari del tasso di disoccupazione – elaborate dall’Istat a partire dal 2011 e presentate per la prima volta quest’anno nel Rapporto – non fanno che confermare questo quadro. Queste misure consentono di cogliere il fenomeno dello scoraggiamento, vale a dire il numero e l’incidenza di potenziali lavoratori che non sono alla ricerca attiva di un lavoro (e quindi non fanno parte delle forze di lavoro), ma che accetterebbero un’occupazione se venisse loro offerta. I dati registrano un aumento dei lavoratori scoraggiati da circa 88 mila unità nel 2004 a 130 mila nel 2013 e un’incidenza che passa dal 12,7% al 19,5%, di gran lunga superiore al dato nazionale ma inferiore al dato del Mezzogiorno. Ciò significa che nel 2013 ben 247 mila potenziali lavoratori sardi soffrono della mancanza di un’occupazione. Il tasso di mancata partecipazione evidenzia come per la Sardegna la crescita dello scoraggiamento abbia interessato in particolare le forze di lavoro maschili (+12 punti tra il 2007 ed il 2013 contro i 3 punti per le donne).

La componente femminile e quella più istruita affrontano la crisi con minori difficoltà

Altri spunti interessanti emergono da un’analisi più dettagliata della disoccupazione distinguendo per genere e titolo di studio. Per quanto riguarda la disoccupazione per genere, il divario tra i due sessi, storicamente maggiore per le donne rispetto agli uomini, si riduce notevolmente tra il 2007 e il 2013 a causa del forte incremento del tasso di disoccupazione maschile: in quest’ultimo anno il tasso di disoccupazione femminile è diventato inferiore a quello maschile di quasi 1 punto percentuale (17% vs. 17,9%). La buona notizia rappresentata dalla sostanziale tenuta del tasso di disoccupazione femminile (rimasto ai valori del 2004 in controtendenza anche rispetto al corrispettivo femminile nazionale in netta crescita) deve tuttavia essere presa con cautela: la concomitante e rilevante diminuzione del tasso di attività per le donne nel 2013 (-3,5% contro -1,8% degli uomini) potrebbe infatti nascondere un’accelerazione del fenomeno dello scoraggiamento nel mercato del lavoro femminile.

L’analisi della disoccupazione per titolo di studio conferma le difficoltà crescenti per i lavoratori con un basso livello di istruzione. Nel 2013 il tasso di disoccupazione regionale di chi al massimo possiede un diploma di licenza media è pari al 21,5%, mentre per chi ha conseguito una laurea, un master o un dottorato è decisamente inferiore, pari al 9,7%. La crisi ha infatti colpito maggiormente i lavoratori meno istruiti, per i quali la disoccupazione cresce dal 2007 di 11,5 punti percentuali, mentre per i più istruiti l’aumento è stato più contenuto, di 2,9 punti. Questi dati evidenziano come, a dispetto della comune percezione, il mercato del lavoro dia ancora valore all’istruzione universitaria e suggeriscono quanto potenzialmente produttivo sia l’investimento pubblico in istruzione universitaria (e non solo) per una regione come la nostra, caratterizzata da uno dei più alti tassi di abbandono scolastico e da una delle più basse percentuali di laureati sulla popolazione a livello europeo. A tal riguardo, desta ulteriore preoccupazione la riduzione, dal 2001 al 2012, di 8 mila occupati nel comparto della scuola, tanto più se essa è il risultato di tagli lineari alla spesa pubblica e non di una razionalizzazione volta ad una maggiore efficienza.

Occupazione: i servizi in forte difficoltà

Dai dati sulle forze di lavoro si evince come, dall’inizio della crisi, agricoltura, industria e servizi abbiano sperimentato una perdita netta di posti di lavoro. Entrando nel dettaglio, è il macrosettore dell’industria (e in particolare quello delle costruzioni) a sperimentare le maggiori perdite dal 2007 al 2013 con una riduzione degli occupati di circa 34 mila unità (pari ad un tasso annuale del -4,5%) contro una perdita di 5 mila unità nel settore dell’agricoltura (-2,7%) e una sostanziale tenuta del settore dei servizi (-0,3%). Tuttavia, se volgiamo lo sguardo al breve periodo, è interessante, oltre che preoccupante, notare come il calo dell’occupazione totale abbia riguardato quasi esclusivamente il settore dei servizi il quale, dopo una crescita degli occupati dal 2007 al 2012, nel biennio 2012-2013 registra un crollo dei posti di lavoro da 460 mila a 416 mila unità. Per contro, si rileva nel 2013 una ripresa dell’occupazione nel comparto manifatturierocresciuta del 12% (circa 7 mila unità).

Con riferimento all’occupazione nel settore pubblico, poniamo l’accento sulla graduale riduzione dell’occupazione nel comparto scolastico, in linea in tutte le macroaree territoriali. In Sardegna la perdita complessiva nel settore della scuola è stata di 8 mila unità tra il 2001 ed il 2012 determinando una riduzione del peso del settore sull’occupazione totale di 6 punti percentuali (dal 35,1% al 29,1% sul totale dei dipendenti pubblici). Questo dato offre una possibile chiave di lettura per interpretare la pessima performance della nostra regione con riferimento al tasso di abbandono scolastico (in crescita e tra i più alti in Europa) e nella percentuale di laureati tra la popolazione attiva (la più bassa in Italia).

 

Il settore turistico: la nota positiva dell’aumento degli stranieri

La nostra analisi conferma la vocazione turistica della Sardegna. Dal settore turistico, soprattutto dal lato della domanda, proviene infatti una delle rare note positive emerse. Sebbene i dati ufficiali Istat sanciscano per il 2012 un calo delle presenze e degli arrivi (-5%) rispetto al 2011, i dati (seppur provvisori) forniti dal Sistema Informativo di Raccolta ed Elaborazione Dati sul Movimento Turistico (SIRED), mostrano per il 2013 importanti segnali di ripresa. Nell’anno passato la domanda turistica verso la Sardegna registra infatti una crescita degli arrivi totali (+10,2%) spinta soprattutto da un incremento del 18,3% degli arrivi internazionali. Si tratta sicuramente di un segnale positivo che, se confermato, fa ben sperare per il prossimo futuro.

L’analisiha indagatoilfenomeno della internazionalizzazione della domanda turistica: sebbene la Sardegna attragga una quota di stranieri inferiore alla media nazionale (41 vs. 47%), la domanda straniera cresce più velocemente rispetto ai nostri diretti competitorscaratterizzati da una netta prevalenza del turismo balneare (Sicilia, Puglia, Calabria e Corsica). L’internazionalizzazione della domanda è benefica sotto diversi aspetti. In primo luogo, essa favorisce la destagionalizzazione dei flussi turistici e quindi una distribuzione dei guadagni più omogenea nel corso dell’anno (nel 2012  solo il 14% dei turisti nazionali ha visitato la Sardegna al di fuori dei mesi da giugno a settembre, contro il 22% per gli stranieri). In secondo luogo, la stima da noi effettuata mostra che in media la spesa giornaliera del turista straniero è di 94 euro, superiore ai 61 del turista italiano. Infine, è risaputo che le presenze turistiche straniere possano avere una funzione traino per (e possano a loro volta essere alimentate da) le esportazioni dei prodotti agroalimentari locali i quali, come già accennato, nel caso della Sardegna denotano negli ultimi anni una buona dinamicità nei mercati esteri. Questo fattore risulta quindi cruciale al fine di ridurre la pericolosa dipendenza della nostra regione dalle esportazioni petrolifere.

Il Rapporto approfondisceil tema sulla spesa dei turisti che visitano l’Isola:nel 2012 la spesa media sostenuta per la vacanza in Sardegna è stata di 861 euro, di cui 226 per il viaggio. I flussi turistici hanno generato una spesa complessiva di circa 2 miliardi di euro, che si traducono nell’8,2% del valore aggiunto regionale. Sicalcola quindi che ogni presenza aggiuntiva è in grado di attivare 73 euro al giorno di valore aggiunto. Un secondo approfondimento riguarda il tema della percezione dell’offerta turistica in Sardegna. Emergecome i turisti siano in larga misura soddisfatti della vacanza e in particolar modo delle attrazioni ambientali e dell’ospitalità offerta, denotando anche una probabilità elevata di ritornare in Sardegna in futuro. Questi dati dimostrano quanto sia rilevante l’apporto del settore turistico al sistema economico sardo e confermano l’idea che il turismo sostenibile basato sulle risorse naturali rappresenti una grande opportunità per l’economia della Sardegna.Come tale è utile che esso venga supportato da un programma coordinato di investimenti sia materiali (per esempio nel campo della deficitaria mobilità interna o nel risanamento e conversione di edifici esistenti in strutture ricettive) che immateriali (nella formazione di operatori turistici in grado di far apprezzare le attrazioni storico-culturali della nostra Isola ai visitatori italiani e stranieri o nella promozione del marchio Sardegna al di fuori dell’Isola).

Tags: donneSardegna
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