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“La base”, il racconto cyberpunk del giovane scrittore Lorenzo Scano

di federica-lai
20 Giugno 2017
in rubriche, webstars

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Lorenzo Scano è autore di “Una sporca faccenda”, breve romanzo noir che a Febbraio verrà ristampato assieme al suo seguito, “La città della violenza”, in un unico volume dalla casa editrice AmicoLibro. Ha pubblicato anche due racconti (Vigilante; Ultima fermata: rapina a mano armata) con la Needream Entertainment, in due raccolte per giovani autori delle scuole cagliaritane, e attualmente collabora con Casteddu Online. Con “La Base” muove i suoi primi passi nel genere cyberpunk. Da oggi ogni sabato e domenica pubblicheremo due suoi racconti.

 

 LA BASE

 

Krono indicò l’armadio accanto alla finestra. “I soldi sono là dentro. È la tua parte che vuoi? Te la consegno volentieri. Ma adesso abbassa quella pistola”. Indicò l’arma con un cenno del capo. “Non c’è bisogno di fare idiozie”. Quel rettiliano aveva una fifa tremenda, se la stava facendo sotto dalla paura. Le labbra gli tremavano incontrollate, e la pelle squamosa era così irta e acuminata da assomigliare alla corazza di un grosso riccio invertebrato. Donato l’aveva colto di sorpresa, in una buia e lurida stanza d’hotel, mentre si trastullava davanti a una fichetta filippina, una sedicenne con gli occhi a mandorla che indossava un invisibile tanga di pelo alle chiappe, e un cappello da cowboy sulla testa. L’aveva cacciata fuori nuda, senza ridarle nemmeno il tempo di infilarsi i vestiti, schioccandole un bacio prima di chiudere la porta. La camera d’hotel era piccola, quasi claustrofobica, puzzolente e impregnata di passione e sudore. L’edificio sorgeva davanti a una strada trafficatissima, dove pedoni, macchine e aeromobili si affaccendavano in tutte le direzioni, e il rumore dei clacson era la colonna sonora che scandiva quei momenti frenetici e futuristi di vita quotidiana. “Se proprio vuoi, amico, ti puoi prendere pure una parte della mia, basta che ci chiariamo e non fai idiozie” ripeté Krono con un sibilo. La sua lingua biforcuta saggiò l’aria veloce, e colò una bomba di bava sul pavimento polveroso e invaso dagli scarafaggi. Ce n’erano di così grossi da sembrare geneticamente mutati. Tenendo sempre le zampe artigliate sopra la testa da lucertola, Krono si diresse all’armadio scassato, armeggiò per qualche secondo con una chiave lunga e ricurva, e aprì un’anta che cigolò sui cardini, come una porta nei film del terrore. “Cerca di fare una cosa veloce” gli ordinò Donato, che puntava ancora la pistola, una Beretta C92 silenziata e letale, in direzione della testa da sauro del rettiliano. “C’è un altro di voi tre figli di puttana che devo ancora andare a trovare”. Il tono della voce non dava adito che a una sola certezza insindacabile: Quel poliziotto l’avrebbe ucciso. Si sarebbe ripreso i soldi e l’avrebbe ucciso. Chi aveva già fatto fuori degli altri due? Rubini o Cage. Di quest’ultimo dubitava seriamente.

Krono si voltò e fissò Donato in silenzio. Era un mutante brutto e insofferente, a metà fra l’umano e l’alieno, figlio di rettiliani di seconda generazione, che si vestiva in maniera antiquata e si circondava di minorenni adescate nei quartieri malfamati della City. Era frutto dell’accoppiamento fra un sauro e un’umana, o perlomeno, le sue forme ibridi e incrociate suggerivano quell’ipotesi circa la sua natura mutante. Il corpo, le braccia, le gambe, gli occhi, il naso e le labbra erano umane, ma ricoperte di una muta verde e squamosa simile a quella di serpenti e lucertole; Krono la cambiava abitualmente, a seconda che la stagione fosse calda o fredda, proprio come i rettili e altri invertebrati alieni. “Ci sono tutti, i miei e la tua parte”. La sua voce era ancora più tremante incerta di prima. “Mi ucciderai adesso?”. Reggeva i soldi fra le zampe.

“Lanciami la valigia” gli ordinò l’altro. “Dopodiché chiudi il becco, siediti in poltrona e fai silenzio”. Il volto di Donato era privo di espressione; se mai se ne fosse percepita una, sarebbe stata la risolutezza. La risolutezza e la follia omicida, quello che gli invadeva la mente e lo rendeva una macchina da guerra quando si tentava di fregarlo. Con la punta del silenziatore indicò il divanetto nero di pelle accanto alla televisione. L’apparecchio era sintonizzato su una televendita di materassi e coperte, sui quali una bionda con le cosce ben tornite e levigate alla perfezione si strusciava contro e sorrideva in direzione della telecamera. Era una bella pupa, una figa che con quei requisiti sarebbe sicuramente giunta in Parlamento, prima o poi.

Krono obbedì. Lanciò la valigia ai piedi del suo aguzzino e si mise a sedere; la poltrona si lamentò sotto il suo peso, una delle gambe scricchiolò incerta. I suoi occhi erano posati sulla bocca di fuoco della Beretta. Donato gliela tenne puntata all’altezza della testa, poi aprì la valigetta e scorse rapidamente i rotoli di banconote impilati uno sopra l’altro, una decina di file di bigliettoni verdi e profumati attorno ai quali affannano i popoli di tutto il mondo. “Bene, bene, bene”. Si esibì in un sorriso che di consolatorio non possedeva la benché minima traccia. La valigia conteneva più di un milione di euro in tagli grossi e ben ordinati. “Adesso vuoi che risponda alle tue domande, amico mio?”. Il suo viso era nuovamente sterile e neutro come un tono di grigio seppia nel cielo.

Krono deglutì e annuì con un cenno della testa. Aveva la gola secca e le parole gli si strozzavano prima di venire fuori e viaggiare nell’aria. Il rettiliano era pervaso dalla paura, che lo assediava in ogni sua più piccola squama, e dentro di sé pregava qualche remoto Dio cui non aveva mai creduto di lasciarlo illeso da quella inaspettata ritorsione del destino.

“Sì, mi prenderò pure la tua parte”. Donato richiuse la valigetta, che emisero un clack breve ma sonoro. “E sì, ti ucciderò, come ho già fatto con quel vigliacco di Pietro Rubini”.

Il rettiliano ammutolì. Il suo volto si contrasse in un’espressione supplichevole e pietosa, quella di un gattino che stesse per finire fra le fauci di un grosso alano incazzato. Era un lucertolone grande e grosso, un brutto scherzo della natura munito di unghie retrattili e fauci primitive che se adoperate nella maniera giusta avrebbero potuto decapitare una testa umana di netto. Ma con la Beretta indirizzata alla fronte, c’era poco da limare le unghie. “Donato, aspetta” lo invitò a ragionare. “Che bisogno c’è adesso di… Non sei obbligato, non c’è nessuno che ti costringe a spararmi e…”.

“Perché mi avete fregato?” lo interruppe Donato. Era insolitamente calmo e controllato, la sua voce non tradiva nemmeno la più remota traccia d’ira nelle sua tonalità calda e pacata. “Facciamo la rapina, tutti quanto rischiamo la pelle dentro quella fottuta banca, scappiamo a bordo di un furgone, uccidiamo il basista, lo seppelliamo e ci dividiamo le quote… Non c’era bisogno di fregare pure me. Invece mi avete dato una bella botta in testa e vi siete divisi pure la mia parte. Figli di puttana…”.

Krono si gettò a terra e giunse le zampe a mò di preghiera. Ed ecco comparire le unghie retrattili, in tutto dieci lunghe e letali lame pronte a scattare e tagliuzzare. Donato indietreggiò di qualche passo. “L’idea non era mia! E nemmeno Rubini era favorevole al raggiro. Insomma, sei un poliziotto, entrambi sapevamo che non era una mossa intelligente tentare di fregarti”.

“Però lo avete fatto”.

“L’idea era di Cage” replicò il mezzo sauro. “Te lo giuro. Qualche giorno prima della rapina ci disse che ti aveva riconosciuto”.

Donato abbassò la Beretta. “In che senso riconosciuto?”.

“Nemmeno noi lo abbiamo capito. So solo che era arrabbiato con te per qualche strano motivo, una cosa che non ci ha voluto spiegare, ma che lo tormentava parecchio”. Krono fece una pausa, valutò se continuare nello sputtanamento o tacere. La visione della Beretta lo convinse a proseguire nel discorso. “All’inizio ti voleva uccidere. Io e Rubini lo convincemmo a non fare una cosa simile, perché ci avrebbe procurato solo un mare di guai”.

Donato era confuso e cominciava a non capirci più niente. Cage lo aveva riconosciuto e lo voleva uccidere? Forse il rettiliano stava solo inventando delle baggianate per salvarsi le squame; ne sarebbe stato capace. Chiunque davanti ad una sentenza di morte violenta si comporterebbe alla stessa maniera. E quel calderone di informazioni prive di logica davano da pensare proprio che il sauro stesse inventando di sana pianta ogni cosa.

“Dove si trova adesso?”.

Krono s’illuminò in viso. Doveva aver percepito illusoriamente uno spiraglio di salvezza in quella che era una sentenza già decisa e imminente. “Si è rifugiato in un posto chiamato “La Base”, un vecchio stabile in abbandono nella zona dei moli” proseguì il rettiliano. “Dice che i soldi li impiegherà per una giusta causa, e che la rapina alla banca era solo l’inizio della sua guerra contro il governo e gli oppressori… Sta assumendo molte droghe. È fuori di testa, e vaneggia dalla mattina alla sera. Sono passato a trovarlo una volta”. Fece una pausa. “La Base è un centro di raccolta per i disgraziati delle periferie. Ci trovi gente di tutti i tipi: umani, alieni, rettiliani, mutanti. Si riuniscono lì e progettano segretamente come sovvertire il governo. Cage si droga e gioca a fare il profeta, gliel’ho visto fare di persona. E c’è una roba in cui… ma non credo sia vero… c’è una roba in cui gettano i…”.

Donato lo zittì. “E perché mai avrebbe voluto uccidermi?” chiese.

Krono si guardò attorno spaesato. Deglutì una decina di volte. C’era da aspettarselo, non sapeva come replicare a quella domanda. “Non ce l’ha detto!” esclamò infine. “Ma ti posso giurare che…”.

Donato alzò la mano armata e posò l’indice destro sul grilletto. Il rettiliano si portò le zampe davanti al muso, come a proteggersi dallo sparo, e cacciò un urlo disperato e profondo che si confuse con la sigla della televendita alla televisione. Lo sbirro fece fuoco e il sibilo dello sparo ebbe la durata di pochi secondi. Uno sprizzare di scintille arancioni accompagnò il proiettile della Beretta fino alla fronte del rettiliano, che morì sul colpo e stramazzò a terra come un sacco di iuta vuoto. Il cadavere si era afflosciato sul pavimento, sollevando ai suoi estremi delle spirali di polvere grigia e spessa che vorticò e danzò nell’aria prima di ricadere a terra e mischiarsi al sangue e ai liquidi cerebrali.

“Ti ho concesso anche troppo tempo” bisbigliò Donato al cadavere del rettiliano. “A te e alle tue idiozie, Krono”. Il muso del mutante era una poltiglia informe di carne maciullata e di sangue che si espandeva in una pozza densa e viscida sotto la ferita. Ne era finito un po’ anche sullo schermo della televisione, dove la bionda adesso fingeva un pisolino sul materasso dalle promettenti e miracolose cure reumatologiche. Il sangue non era rosso come quello degli umani. Era verde e gelatinoso, una sostanza vischiosa che si incollava al pavimento e creava larghe incrostazioni nauseabonde. Dunque di quella pasta erano fatti dentro i rettiliani: gelatina verde e appiccicosa. Non ne aveva mai ucciso uno prima d’ora, Krono si aggiudicava un trofeo, anche se non avrebbe potuto festeggiarlo.

Prima di uscire da lì, Donato lasciò la televisione accesa e stabilizzò il volume ad un livello medio-massimo. Non voleva che gli inservienti dell’hotel si insospettissero per la sua visita. Già aver cacciato fuori la troia a calci in culo era azzardato. Ma se qualcuno l’avesse vista in quelle condizioni, terrorizzata e nuda come un uccellino caduto dal proprio nido, avrebbe già allertato la polizia che sarebbe venuta a bussare alla porta. In ogni caso, se alla reception gli avessero posto delle domande, Donato avrebbe tirato fuori la patacca miracolosa. Era uno sbirro, sì, che amava la bella vita, le auto sportive e i vestiti alla moda. Un paio di settimane prima aveva messo su una banda di disgraziati pronti a tutto pur di fare dei soldi: Krono, Rubini e Cage. Il colpo era andato alla grande. La filiale della banca era isolata, ubicata in una posizione facilmente attaccabile, tagliata fuori dal traffico terrestre e aeromobile, e la guardia giurata che vi prestava servizio corruttibile come un tossico in crisi d’astinenza. Un vero Giuda. Se ne erano serviti per ottenere una pianta dell’edificio, oltre agli orari e le metodologie di deposito del contante che arrivava a bordo dei blindati, il primo venerdì mattina di ogni mese. Dopodiché, senza scrupoli né rimorsi, avevano fatto fuori l’uomo. Era stato proprio Donato a sparare. Un solo colpo alla base della nuca. “Il nostro Giuda è andato” aveva detto, prima che qualcuno lo colpisse alla testa con una forza tale da farlo venire giù come un salame. Si era accasciato a terra privo di sensi. L’ultima cosa che rammentava, l’ultimo suono che la sua mente aveva elaborato prima di resettarsi, era il motore del furgone che rombava con ferocia mentre il mezzo si allontanava di corsa dalla Zona Industriale. La verità era sopraggiunta al risveglio, all’alba del mattino seguente: Krono, Rubini e Cage, la banda che Donato stesso aveva ideato e messo assieme, l’aveva inculato senza vaselina. Una sodomizzazione ingrata e dolorosa, un oltraggio prestabilito e studiato che quei tre figli di cane avrebbero pagato con gli interessi. Due avevano già scontato la pena. Un terzo stava per fare una brutta fine e non lo sapeva nemmeno. Donato lasciò la camera d’hotel. Una volta in strada, invasa da cartelloni pubblicitari giganti e masse di individui che si spostavano da una parte all’altra, si diresse alla propria macchina, con la valigetta carica di contante che gli danzava nella mano destra.

 

La zona dei moli faceva capo all’agglomerato industriale della City, un’area vasta e inquinata che si allungava per una ventina di chilometri, fuori dalla cinta urbana, fino a sposare i confini dei Comuni dell’hinterland metropolitano. Quando lo sbirro ci si diresse era già buio, e le uniche luci che si potevano intravedere erano quelle che si riflettevano sui vetri e nello specchietto retrovisore della sua macchina: abitazioni, uffici, palazzi, i grattacieli del Centro Direzionale, le macchine che percorrevano le arterie del centro, fra Via Roma e la Zona degli Affari, e le Pantere volanti della Polizia e della Municipale a dirigere e orientare il traffico aeromobile, a quell’ora molto elevato e più caotico di quello terrestre. La zona dei moli invece era deserta. C’era tutta una serie di capanni e stabili di cemento armato che si stagliavano contro la tela greve e minacciosa del cielo in previsione di una brutta bufera -un fortunale ad alta attività elettrica che sarebbe sopraggiunto alle prime luci del mattino dopo-, e un vecchio ubriacone che giaceva a terra, contro la parete di un cassonetto dell’immondizia, fra i suoi stessi escrementi e una pozza di urina ampia come uno stagno.

Donato riconobbe immediatamente La Base. Era un edificio maestoso, di circa dieci piani, un tempo utilizzato per il riciclo e la lavorazione della plastica, che si innalzava al cielo come l’obelisco di un passato vicinissimo al presente super tecnologico e disastroso. I piani erano tutti silenziosi e bui come la notte che ammantava ogni cosa, ma sulla sommità dell’edificio si poteva scorgere una luce che rischiarava la terrazza, e si rifletteva sul parabrezza attraverso una serie di flash e di bagliori accecanti. Dunque era lì che si annidava Cage. La carogna era un reietto, Donato l’aveva reclutato dopo averlo visto mettere a segno una rapina ai danni di un’agenzia assicurativa accanto alla stazione dei treni. L’aveva seguito scoprendo dove abitava, prima di offrirgli la collaborazione al colpo che avrebbe fruttato circa cinque milioni di euro in totale, e quello si era detto subito della banda. Tutto era filato liscio come l’olio, fino a quando quella sera, dopo la rapina, non gli avevano dato una botta in testa ed erano fuggiti con la sua parte di denaro all’interno della valigetta. Donato si parcheggiò sul retro del fabbricone e spense la radio. Durante tutto il viaggio, il telecronista di ChannelCittàModerna non aveva fatto che parlare di una serie di sequestri di persona avvenuti nelle ultime quarantotto ore: quello di un consigliere comunale, di un assessore e di un sindacalista spariti dai propri domicili fra le notti di mercoledì e giovedì. Si domandavano tutti che fine avessero fatto, eccetto lui, Donato, che dal giorno seguente alla rapina viveva in funzione di riappropriarsi del denaro e portare a termine il suo piano. Uccidere Krono, Rubini e Cage, e continuare a godersi la vita e la refurtiva. Mise da parte la valigetta, la sistemò sotto un sedile, e prese mano alla Beretta C92 che teneva dietro il cinturone di pelle. Non appena posò i piedi sull’asfalto gelido e bagnato, udì una serie di click molto vicino alla propria testa. Gli bastò alzare lo sguardo di pochi millimetri, per accorgersi degli uomini che, armati di fucili e grossi, vecchi ma potenti e letali kalashnikov, lo tenevano sotto tiro da una distanza inferiore ai due metri.

“Butta la pistola a terra” ordinò uno di loro, che era saltato fuori dalle tenebre e indossava una tuta militare del colore della sabbia. Aveva un passamontagna mephisto calato in viso, e gli occhi del colore del ghiaccio. “Poi vai sul retro, prendi la valigetta e consegnala a Yule”.

Tale Yule si fece avanti: era una montagna mutante con i trapezi che trasbordavano da una divisa da impiegato della stazione dei treni. “Dopodiché vieni avanti e tieni le mani sopra la testa” proseguì la voce dell’individuo mascherato. Donato obbedì e fece cadere la pistola a terra. Poi tirò fuori la valigia da sotto il sedile, e la consegnò a quella specie di orango semi umano che sembrava far tremare la terra ad ogni suo passo. “Hai ucciso Krono e Rubini, dico bene?”. L’uomo si sfilò il mephisto e ghignò in maniera malefica. Donato ammutolì: era Cage, a cui la droga aveva stravolto i connotati. “E volevi venire qui a fare fuori pure me. Sai che cos’è questa?”. Cage indicò la fabbrica alle sue spalle.

“La Base” rispose Donato, che solo allora collegò la notizia della radio con il racconto che il rettiliano gli aveva fatto prima di morire.

“Esatto. Quel posto dove i reietti di tutti i quartieri, di tutte le città, di tutto il pianeta e della galassia possono trovare riparo dalle ingiustizie sociali”.

Donato osservò la terrazza dello stabile. I bagliori che poco prima si rifrangevano sul parabrezza della sua macchina erano cessati; al loro posto una sola, potente e opaca luce arancione che sembrava generata da un coro di mille e più voci, quelle dei disgraziati della Base, allontanava la notte e ne respingeva i fitti recessi.

“Puoi tenerti la valigetta” replicò. Si rammentò dell’espressione impaurita del rettiliano, poche ore prima, e capì che quella dipinta nel suo viso in quel momento era la medesima. “Venivo in pace, ti avrei solo richiesto indietro la mia parte e…”.

“Il mondo è ingiusto” lo ignorò Cage, rinfilandosi il mephisto e facendo segno a Yule e a un altro mutante di immobilizzarlo e tenerlo d’occhio. Si incamminarono in direzione dello stabile, e qualche minuto dopo ne risalivano la rampa di scale di ferro che conduceva, piano dopo piano, alla terrazza e al suo rito pagano. “Per decenni, noi poveracci delle tendopoli e dei quartieri poveri ci siamo abituati a sopportare le malefatte della City, dei suoi porci governatori e tutte le loro regole, le loro stupide leggi, inventate al fine di manovrarci come burattini”. Cage ribolliva di rabbia.

“Puoi tenerti tutto il denaro, per me non ha importanza!” insisté lo sbirro. Mano a mano che salivano, il coro di voci si faceva sempre più intenso. Il palazzo sembrava scosso dalle fondamenta, come durante un terremoto.

“Siete tutti colpevoli! Politici, sindacalisti, giornalisti e costruttori edili. I primi si sono chiusi nei loro bei palazzi, difesi da voi poliziotti, che siete pure corrotti e mafiosi, e si arrogano il diritto di scegliere che cosa è meglio per noi disgraziati. I secondi fingono di fare i nostri interessi. I terzi ingrassano scrivendo delle nostre malefatte, che sono l’unico mezzo di sostentamento rimastoci, e i quarti continuano a colare cemento e dare vita a ghetti e palazzi popolari dove noi tutti, umani, mutanti e migranti alieni siamo costretti a vivere come scarafaggi!”.

“La colpa è…” tentò lo sbirro, strattonato su per le scale da Yule.

“La colpa è vostra. Quando ho scoperto che eri un poliziotto, e non un reietto come noi, come me, Krono e Rubini, mi è salito il sangue al cervello. Volevo ammazzarti. Loro mi convinsero a lasciarti andare, ed io acconsentii. Tu li uccidi e pensi di essere così tanto furbo e potente da poter venire qui, nella Casa degli Ultimi, a farmi fuori e rubare il denaro della Causa”.

Erano giunti all’ultimo piano. La stretta di Yule e dell’altro mutante, che si chiamava Gozzo e pure lui era un rettiliano, abbandonò le braccia di Donato. La terrazza era enorme e gremita di individui di tutti i tipi: accattoni, girovaghi, rettiliani, umani che la crisi aveva impoverito e reso dei primordiali ominidi affetti da turbe ataviche; e ancora alieni di ogni dove, emigrati della galassia con addosso abiti antiquati e fuori moda, stracci del ventunesimo secolo e scarpe da tennis dalla punta e la suola bucate; mutanti dalle facce storpie e le forme abominevoli, ibridi gobbi e con tre braccia, piccoli nudi e bambine con file di mammelle sulla schiena, esseri che persino le più estreme periferie avevano rigettato e allontanato dalle loro strade luride e strette.

“Te lo puoi tenere! Ti puoi tenere il denaro della causa!” urlò Donato, quando le facce di tutti i presenti si volsero verso di lui.

Gli occhi di Cage lo trafiggevano da sotto il mephisto. Uno dei suoi scagnozzi gli passò una fiala che conteneva uno strano e vaporoso liquido blu fra le mani. Cage stappò la fiala e bevve come un animale assettato. Yule e Gozzo, il rettiliano, guardavano Donato e sorridevano sotto i baffi. L’atmosfera sulla terrazza si stava caricando di e per qualcosa di così terribile che il poliziotto si pisciò addosso. Sentì l’urina che gli scorreva sulle cosce e gli macchiava i pantaloni. Cage riprese le strofe della cantilena dal punto in cui i reietti l’avevano terminata, e innalzò le mani verso il cielo.

La massa di disgraziati dapprima si disperse e poi si riunì a formare un enorme cerchio umano, alieno e mutante che si unì in coro alle parole arcane di Cage. Al centro della terrazza c’era una cosa abominevole. Quando Donato la vide si pisciò addosso per la seconda volta. Una massa informe e immensa di grasso, enormi bubboni che affioravano dalla pelle e pulsavano al ritmo delle strofe di Cage e dei suoi adepti, era lì che si agitava incollata al pavimento. Gli occhi erano piccoli e assottigliati, dalle fattezze orientali, e la bocca posta al centro della pancia: un’enorme, vorace caverna dalla quale facevano capolino doppie file di denti aguzzi e macchiati di sangue.

Yule e Gozzo annuivano e sorridevano ancora nella direzione di Donato.

“Figlio dell’inquinamento e dei liquami scaricati in mare dalla raffineria” gli riferì il rettiliano, mentre un mutante, un individuo con delle grosse chele al posto delle braccia, sospingeva il consigliere comunale Acquafredda verso la bocca bavosa. Questi si ribellava, si dimenava e scalciava in preda alla paura. Cage gli sparò alla testa e il mutante con le chele lo spedì dritto fra i denti della massa obesa e purulenta. Il mostro inghiottì Acquafredda fra urla raggelanti e grossi schizzi di sangue. La folla seguitava a cantare. I bubboni della cosa si accedevano di una luce arancione che veniva proiettata fin sulle stelle: era la vita.

Mentre gli adepti ululavano riti pagani, Cage il profeta esclamò da sotto la maschera: “Questa è la fine che spetta agli oppressori!”. Fece una pausa durante la quale gli fu servita una seconda fiala di liquido vaporoso. “Questa è la pena che devono pagare i potenti per averci ridotto alla fame e alla miseria! Avanti il prossimo!”.

Donato tentò di fuggire. Yule e Gozzo lo costrinsero a indietreggiare. Cage il profeta stava salmodiando e tendeva le mani al cielo. I mutanti lo imitavano e il coro di voci faceva tremare l’intero edificio. “Potete tenere i soldi per la causa” diceva. “Mi ci unirò pure io. Sto dalla vostra parte. Sto con i reietti, con i disgraziati e…”.

Urtò qualcosa di molle e fetido come le fogne. Yule e Gozzo lo spinsero con violenza. Alle sue spalle, la massa informe se lo inghiottì come una mosca.

 

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