La polemica sui buoni pasto “congelati” dall’Ats va avanti. Dopo la denuncia del sindacato Fials, ecco le voci degli infermieri, una delle categorie di lavoratori pubblici che, da circa un anno, non ricevono più i ticket restaurant. Ivan Aiana, 45enne di Villaspeciosa, lavora come infermiere da quindici anni nel reparto di Psichiatria 2 del Santissima Trinità, ed è anche dirigente sindacale. Contratto da “tempo pieno, spalmato su tre turni, ogni giorno lavoro o la mattina, o la sera o la notte”, è arrabbiato per quello che “è un mio diritto”, cioè proprio quei ticket che, durante il mese, gli hanno permesso di poter mangiare senza dover mettere mano – o quasi – al portafoglio. “Cinque euro e sedici centesimi per dieci giorni ogni mese, ma con circa un euro che devo pagare per ottenere ogni singolo tagliandino”. Meglio, “che dovevo pagare. Ci hanno liquidato i buoni pasto utilizzati sino a ottobre 2018, poi più nulla. Io li utilizzavo per mangiare un panino o per fare la spesa, sono un bel po’ di euro che, adesso, non ci sono più ma che mi spettano per legge”, ricorda l’infermiere.
“Avere quelle decine di euro in più al mese sono una risorsa. Prima avevamo la carta elettronica ed eravamo tutti tranquilli”, argomenta Aiana, “sono sposato e ho due figli, sto finendo di pagare il mutuo della casa e mi faccio quaranta chilometri al giorno”. Qualcuno, però, potrebbe dire che quello dei ticket è un “privilegio” al quale si può rinunciare: “No. Io sono un professionista della salute, con rischi e responsabilità pari quasi a quelle di un medico ma con un terzo del suo stipendio. Ho il diploma di infermiere professionale. Prendo 1700 euro al mese, non siamo pagati adeguatamente per il ruolo e la responsabilità che abbiamo”.