Forse fin dal periodo punico, fine sesto secolo avanti Cristo, il colle che pomposamente viene definito monte, costituì una riserva di legname atta a soddisfare le esigenze di Caralis che in questi tempi stava sviluppandosi urbanisticamente.
Servì alla creazione di nuovi insediamenti che davano alla città una struttura pluricellulare con vari centri abitati che la rendevano composita tanto da meritarsi in periodo latino il nome plurale di Carales, come dire “le Cagliari”.
La sicura folta vegetazione, per secoli nata spontanea, così da farlo apparire un bosco lussureggiante, fu pian piano distrutta e gli alberi d’alto fusto lasciarono il posto alla macchia cespugliosa.
La storia ci riporta un’ordinanza spagnola del 1536 che vietava il taglio degli alberi: evidentemente già allora il colle era seriamente minacciato.
Il suo nome deriva da Urpino che in vernacolo significa volpe, animale che doveva abbondare in quel luogo, insieme a selvaggina come il coniglio, la pernice è probabilmente il cinghiale.
La sua posizione dominante dello stagno di Molentargius e il lungomare oggi del Poetto ne facevano un punto di sorveglianza che non poteva essere non sfruttato dai cartaginesi e dai romani, data la sua vicinanza al colle di Bonaria di cui è la prosecuzione naturale.
Ma il tempo e le distruzioni successive e l’incuria non hanno permesso di ritrovare alcun reperto.
Ebbe un po’ di tregua nel periodo tardo bizantino (750-850 avanti Cristo) quando con le prime incursioni musulmane Caralis fu lentamente abbandonata a favore di Santa Igia che, data la distanza, gli abitanti non trovarono agevole arrivare fino al colle per far legna.
Con lo sviluppo delle saline nel XVII secolo ad opera degli esperti Vittorini di Marsiglia, fu nuovamente disboscato intensamente per produrre palizzate e pontili utili alla lavorazione del sale e per costruire le residenze dei lavoratori.
Con l’assedio aragonese del pisano Castel di Calari nel 1324 fu inglobato nel sistema difensivo iberico che arrivava fino al colle di Bonaria dove fu costruita una città fortificata e, dopo la loro vittoria, diventò una cava che forniva pietrame di calcare. Cava che fu sfruttata precedentemente anche dai pisani per il consolidamento del “castrum” sul colle di Castello.
Monte Urpinu che per secoli aveva resistito, rigenerandosi più volte, non poté più autodifendersi, spogliato dai grandi alberi e lacerato dalle cave nelle sue viscere si avviò ad un progressivo degrado.
Nel 1819, Alberto Ferrero della Marmora dà questa descrizione: “vicino a Monreale si eleva un colle della stessa roccia calcarea che si estende all’incirca dal nord al sud è porta il nome di Monte Urbino. Come promontorio di Sant’Elia, il colle era una volta ricoperto di alberi, soprattutto di bei ginepri abbastanza grandi da fornire le travi per le case della città di Cagliari, secondo quanto risulta da alcuni antichi documenti. Oggi è arido e vi si trovano soltanto qua e là pochi cespugli rinsecchiti di ginepro, resti della precedenza vegetazione. Si potrebbe ripopolare la collina con nuove piante soprattutto con “Pinus Marittima”, che sembra essere l’albero più adatto ai terreni alle latitudini propri della costa marittima”.
Dalla descrizione fatta da della Marmora si evince che il Colle in quel periodo era ormai in completo degrado con la nuda roccia affiorante che gli conferiva un aspetto desolante. Da notare l’acume del grande uomo che suggerì e presagì l’unica soluzione per salvarlo: “rimboschirlo con nuove piante del tipo pinus”.
Forse il suggerimento del Lamarmora non fu vano, perché nel 1870 il barone Sanjust di Teulada lo colse appieno mettendo a dimora centinaia di pini d’Aleppo sottraendo così il colle al pascolo di animali da macello che lo stavano desertificando.
Dopo alcuni anni la collina assunse un altro aspetto fin quando il Comune, negli anni ‘20, lo acquisì con le intenzioni di farne un parco.
Ma gli anni passarono ed il colle sembrava destinato ad un inevitabile declino tanto era il degrado, l’abbandono e l’incuria. Oggi quel colle è stato salvato definitivamente ed è un parco recintato e ci si augura che abbia lunga vita anche se alcune sue zone sono da rivedere e rigenerare.












