Folate di storia: la Torre dell’Elefante e quel vecchio cieco chiamato maestrale

Il racconto di Matteo Porru: un ragazzo in compagnia di un anziano cieco si godono il panorama di Cagliari dall’alto, e poi si scopre che…

Dalla torre dell’elefante Cagliari è diversa. Per la prima volta zitta, mi schiaffeggia a botte di tramonti. Solo silenzio e qualche chiacchiericcio sporco dei gabbiani. Non si sentono le caffettiere che bollono, i baci che si rincorrono, i vestiti che si stringono in un abbraccio. Non si sente la musica jazz anni trenta, un chitarrista senza spartito, un pensiero bellissimo lasciato solo in piazza del Carmine. Cagliari sta zitta, come se stesse aspettando qualcuno.

“Ehi, dico a lei, mi dà una mano?”

Un anziano è al quarto scalino prima della terrazza. Vado a dargli una mano. Ha il fiatone, tende a barcollare. Mi accorgo poco dopo del bastone.

“Lei è cieco?”

“Non ci voleva una laurea per capirlo.”

Gli do una mano per arrivare alla terrazza. Lui si affaccia, aggrappandosi al marmo. E il porto, il mare, le case da lassù si inginocchiano: “Bentornato a casa, maestro”, gli dicono. Lui si affaccia, con un sigaro in bocca, sporge le mani, e gli occhi li chiude. Il vecchio ha le mani più secche che io abbia mai visto, cosparse di sale, e la sua faccia, piena di rughe e pieghe trova pace solo quando glieli guardi, quegli occhi blu. E ci vedi il freddo degli abissi, la pioggia che scende incessante, le lacrime dei bambini e il cielo e qualche nuvola che passava di lì per caso.

“Ma lei che vede, se posso?”

“Sei indiscreto, giovane.”

Meglio se sto zitto, mi dico. Alla prossima rischio di essere più cafone di quanto lo sia già stato.

“Comunque te lo dico, cosa osservo: la vedi quella barca a vela a ore dieci, col vento in poppa?”

“Sì.”

Ma lui come fa a vederla?

“E la finestra della signora Uras al quarto piano della palazzina alla nostra sinistra, quella che sta sbattendo?”

“Sì, certo che la vedo.”

“Bene. Ora tocca a te dirmi cosa vedi.”

Mi stupisce questa sua domanda. Sembra che mi voglia mettere alla prova. Mi piace questo gioco.

“Beh, c’è parecchio vento oggi, le palme ondeggiano. Le onde sono grosse, più grosse del solito ma non c’è molto traffico. Sia di navi che di auto. E non c’è tanta gente in giro.”

“Mi hai detto parecchie cose -dice lui- che non vedi. Ma guarda meglio. Le palme non stanno ondeggiando. Stanno salutando. E le onde giocano.”

Mi arrendo, potrebbe essere ubriaco. E francamente inizia a farmi un po’ paura questo suo indagare.

“Se tu vedessi bene -insiste-, noteresti che non significa che la gente che vedi in strada non ci sia. C’è una marea di sardi che passeggiano, anche chi non ci abita più. Ci passeggia col pensiero e con addosso il desiderio di tornare.”

“Sicuro di stare bene?”

“Sì. Io amo intrufolarmi dappertutto. O meglio, dove riesco a entrare. Confesso di essere parecchio insistente, quando arrivo. La vedi la signora Uras?”

“No, non più.”

“È in cucina, la finestra l’ha lasciata un po’ aperta. Riesco a vederla bene. Sta preparando il pranzo.”

“Ah sì? E che prepara?”

“Pasta. Al sugo.”

“Per quanti.”

“Per lei.”

“Solo per lei?”

“Non la conosci, la signora Uras. Da quando è morto il marito, una dozzina di anni fa lei, non si dà pace. Certo, mi fa una tristezza incredibile vederla di sera in cucina con qualche candela per non buttare soldi all’Enel, mentre sorseggia un passato di verdura. E pensare che quando c’era il marito in casa non c’erano mai. Volevano girare il mondo e vivere le loro avventure, provare le cavallette fritte, fermare il tempo mentre mangiavano un gelato al pistacchio e nocciola. Non le hanno fatte tutte, era impossibile. Ma ne hanno fatte tante.”

“Ma tu come fai a saperlo?”

“Io sono vecchio, ragazzo. Ho visto troppo e vedrò ancora parecchio, se Dio mi assiste. Conosco tutti in Sardegna, e a Cagliari in particolare.”

“Se conosci tutti conosci anche me.”

“Certo.”

“E chi sono?”

“Questo lo devi scoprire tu.”

Se ne va, con un passo felpato, aspira il suo sigaro e il fumo lo segue.

“E tu -gli chiedo, irritato- tu, chi sei?”

“Presto lo capirai.”

Se ne va, mi lascia solo con mille dubbi e mille domande in testa. Sono confuso, disorientato, stordito. Un vecchio cieco e andato via di mente. Ora le ho viste tutte! Ma appena realizzo, mi siedo a terra. Non riesco a capacitarmene, perché a me e perché così, dal niente. L’ho capito poco dopo quando mi ha avvolto il vento. Che quel vecchio con il sigaro in bocca si chiamava Maestrale.


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