L’ultimo saluto a Nichi Grauso, scomparso all’alba di ieri dopo mesi di malattia, domani alle 16: i funerali saranno celebrati nella chiesa dei Santi Giorgio e Caterina, in via Scano a Cagliari. Editore, imprenditore, politico in una breve parentesi della sua vita: in tanti lo ricordano, nelle sue mille sfaccettature. E chiunque l’abbia in qualche modo incrociato, ha inevitabilmente un ricordo da condividere.
“Sono Nichi Grauso, la voglio incontrare”. Mi ricordo ogni sillaba, ogni respiro, ogni istante di quella surreale telefonata che pensavo fosse uno scherzo. Era una domenica sera, poco dopo le nove. Mi ricordo persino come ero vestita, sono passati 21 anni e io mi ricordo tutto di quei pochi istanti cristallizzati per sempre nella mia memoria. Io, che quotidianamente da poco più di un anno continuavo a espiare la colpa di non essere sarda in terra sarda, io che ero appena stata assunta nel suo ex quotidiano e che vivevo sulla difensiva, io sono stata folgorata da quella telefonata.
Ho resistito. Cavolo, se ho resistito. Non fare stupidaggini, mi dicevo: hai saltato la fila doppiando tutti quelli in attesa da anni, hai una scrivania nel giornale più importante e ambito della regione, hai la strada spianata. Eppure. Eppure io non ci dormivo, dopo quella telefonata. Perché, in fondo, ci si riconosce. E io, l’avevo riconosciuto il richiamo di quella intelligenza potente e disarmante.
Ho ceduto, dopo qualche giorno. L’ho richiamato e li ho detto: “Ok, incontriamoci”, imboccando così una strada senza ritorno. Impossibile resistergli, per chi ha un debole per i cervelli. In un mondo di mediocri, lui ti folgorava: impossibile tornare indietro un minuto dopo averci parlato. E così è iniziata quell’incredibile avventura che è stata Il Giornale di Sardegna, un mix di free press, 80 pagine di giornalismo vero, ed edicola, diventato poi Epolis, primo vero network della carta stampata in tutta Italia, con tirature da far impallidire Repubblica e Corriere. Un caso editoriale, un’intuizione pazzesca, naufragata dopo quasi dieci anni nel mare dell’indifferenza di chi oggi si straccia le vesti per la sua morte. Di sicuro, Grauso non aveva collaboratori alla sua altezza: e questo è stato il suo più grande punto debole. Si fidava, lo tradivano con l’incapacità.
Il Giornale di Sardegna ha contribuito a scrivere la storia dell’informazione in Sardegna e poi in Veneto, a Verona, Padova e Venezia, a Roma, Milano, Bergamo, Brescia, Bari, Napoli: una incontenibile esplosione. Anni incredibili, condivisi in Veneto con il direttore di questo giornale, anni in cui sentivamo di avere il mondo nelle mani. E ce l’avevamo.
Nella meravigliosa redazione di viale Trieste, pietra e vetro, piena di bellezza ed entusiasmo, un anno dopo l’uscita del giornale Nichi ha chiamato qualcuno di noi, pochi, nella sua stanza. Brandendo una copia di El Periodico di Barcellona ci ha detto che il nostro giornale si sarebbe ispirato a quella grafica, sarebbe diventato nazionale, che avrebbe aperto una redazione in ogni città e che chi voleva essere della partita poteva farsi avanti. Tutto pagato, non dovete pensare a niente, diceva: solo a fare grande Epolis. Ci siamo fatti avanti.
Da lì, anni incancellabili. Indescrivibili, per chi ama questo assurdo mestiere. Lui piombava all’improvviso nelle redazioni che aprivamo e guidavamo, si assicurava che tutto procedesse come doveva e andava. Con la sua sigaretta sempre accesa, mai visto senza, ovunque fosse.
Finché qualcosa si è inceppato. E si sa, più voli in alto e più la caduta fa male, tanto che ancora in tanti ci curiamo le ferite.
Nichi Grauso ha riscritto le regole, ha fatto respirare alla carta stampata l’odore del futuro, quando ancora nessuno parlava di digitale. Ogni incontro con lui lasciava qualcosa: una domanda, una scintilla, rabbia, o un sorriso. Mai indifferenza. Mai il vuoto.
Editore, innovatore, anima inquieta a tratti incontenibile, che ha attraversato il tempo con la forza di chi sa guardare oltre il presente. Visionario, sì. Ma anche profondamente umano. Uno che ti guardava dentro, che sapeva accendere le idee come nessuno. Non era facile stargli dietro. Troppo avanti, troppo veloce, troppo Nichi: vette e abissi, troppo tutto. Era impossibile imbrigliarlo, definirlo, catalogarlo: come tutte le intelligenze superiori, era libero e controcorrente, fuori dagli schemi, oltre le regole.
Ha fatto errori, non pochi e che ancora in tanti paghiamo, è ripartito, ha cambiato vita, ha regalato speranze finché quella malattia che solo pochi mesi fa era convinto di aver sconfitto, ha stravinto.
Era incontenibile al rientro dalla clinica di Verona, gli ultimi inconfondibili suoi messaggi risalgono a quel periodo, tanto da aver voluto raccontare a tutti la speranza, la possibilità di farcela, l’impegno a dare ai sardi una struttura come quella dove era stato curato. Perché lui era così: passione, intelligenza e coraggio. Aveva il dono raro di non accontentarsi, di mettere in discussione tutto, prima di tutto sé stesso. E in questa irrequietezza trovava la sua quiete. Come se fosse nato per non fermarsi mai, neanche ora.