Una dedica e una intensa riflessione di Ivano Argiolas, anche presidente dell’associazione “Renzo Galanello Aps”, sempre in prima linea per affrontare, divulgare e sensibilizzare riguardo la talassemia, e verso quel centro sanitario che per chi lotta contro questo male è un punto di riferimento prezioso e importante, al pari della propria famiglia, degli affetti più importanti e della propria casa. “Sono trascorsi trent’anni da quel drammatico episodio di scompenso cardiaco che mi ha portato al limite della sopravvivenza. Di quel periodo intenso e cruciale ho lasciato testimonianza nel mio libro e in numerose conferenze pubbliche.
Prima di allora, era il 1995 e avevo vent’anni: il mio primo tempo. Poi è iniziato il secondo tempo, un dono prezioso della medicina e, me ne sono persuaso, il frutto di una supplica esaudita dalla Madonna di Bonaria” ha espresso Argiolas. Una testimonianza che racconta un lungo percorso di vita affrontato con lo spirito di chi mai si vuole arrendere e riconosce il prezioso ruolo della sanità locale.
“In cambio di questo dono – e dei tanti ricevuti attraverso le trasfusioni di sangue – ho voluto restituire qualcosa al mondo della medicina e della ricerca, così come alla comunità a cui appartengo: quella di chi vive con la talassemia e di chi si dedica alla sua cura. Perché, ne sono certo, i pazienti cronici formano una comunità insieme ai propri medici e infermieri. L’alleanza, in noi, è insita.
Al centro di tutto c’è un luogo simbolico: l’ospedale Microcitemico Antonio Cao. Ancora oggi gioisco per aver contribuito, insieme ai miei ex colleghi di Thalassa Azione APS e all’allora Assessore alla Sanità Luigi Arru, alla sua intitolazione al nostro amato “Babbai,” il Professor Cao.
Questo luogo e la comunità a cui appartengo occupano un posto di primo piano nella mia vita – persino al pari di mia moglie Francesca. Poiché anche per lei, facendo parte di questo sistema, il benessere del Microcitemico A. Cao e la qualità delle cure offerte sono, come per tutti noi, una priorità assoluta.
Oggi, a cinquant’anni, sento di essere entrato nel terzo tempo, quello supplementare che, inevitabilmente, chiuderà – speriamo fino a quando sarà dignitoso giocarla, una partita intensa, sofferta e meravigliosa. Vivo questo tempo aggiuntivo con la serenità di chi non ha più nulla da chiedere alla vita, se non pace, ancora un po’ di salute e la speranza di sbagliare il meno possibile.
In questo senso, il mio essere un modesto attivista e aver dedicato un certo impegno alla questione, ha molto influenzato le mie posizioni”.
Una riflessione, quindi, rivolta alla situazione che attualmente si vive a livello nazionale, che racconta di una sanità che deve lottare contro le contraddizioni inferte dai “piani alti”, che contrastano con quel mondo che ha bisogno di risorse e che non deve essere messo da parte perché tanti malati hanno bisogno costante di cure, di interventi per migliorare le prestazioni sanitarie messe in atto da medici e operatori che non arretrano innanzi alla missione professionale per la quale hanno giurato, bensì proseguono nel loro arduo compito di salvare le vite nonostante le difficoltà legate a un mondo che non deve essere assolutamente minimizzato e ridimensionato. “Tuttavia, ciò a cui sto assistendo, anche in campo nazionale (vedi riabilitazione e ripristino vitalizio a chi si è macchiato di colpe gravissime che hanno comportato danni gravissimi alla mia comunità), mi sconvolge”.