Da Uta a Palermo, da un carcere che ospita qualunque tipologia di detenuti al Pagliarelli, istituto penitenziario che ospita mafiosi di “punta”. Un luogo nel quale Tomaso Cocco, primario di Terapia del dolore rimasto invischiato nelle indagini per “spuntini segreti” con banditi sardi e favoritismi, non si sarebbe mai aspettato di finire. Invece, il giorno prima dell’Epifania, il trasferimento improvviso e in gran segreto: almeno, così sostengono le sue legali Rosaria Manconi e Erika Dessì. “Un fulmine a ciel sereno, non sapevamo nulla noi e nemmeno la famiglia del primario”. La battaglia per riportarlo in Sardegna è già iniziata, e le legali puntano sul più ovvio dei fatti: se l’accusa di associazione di stampo mafiosa è caduta, cosa ci fa il nostro assistito in un carcere che ospita esponenti, più meno di spicco, della mafia siciliana e di Cosa Nostra? Le istanze al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sono già state spedite, la risposta non è ancora arrivata. E rischia di diventare un caso nazionale il trasferimento di un indagato, non per mafia, in un carcere per mafiosi. Le due avvocatesse hanno saputo del trasferimento “dopo cinque giorni”. Il 13 gennaio Rosaria Manconi ha raggiunto Palermo e ha incontrato il suo assistito: “Ho accertato che, nonostante il provvedimento reso dal tribunale del Riesame che ha escluso la sussistenza del reato di associazione di tipo mafioso e dell’associazione segreta, avviato la procedura di declassificazione, il detenuto, senza ragione, risulta sottoposto al regime carcerario di alta sicurezza ed a tutte le restrizioni che ne conseguono. Nel corso del colloquio è emerso che Tomaso Cocco è stato collocato in una cella di pochi metri quadrati, ubicata al piano seminterrato della struttura penitenziaria, priva di luce diretta, presente solo una piccola ‘bocca di lupo’, umida, insalubre, senza riscaldamento ed acqua calda. Non ha potuto lavarsi per diversi giorni subendo un’ulteriore umiliazione e un trattamento degradante, soprattutto per un medico. Non gli consentono di usufruire dell’ora d’aria, di leggere, di cucinare, di fare esercizio fisico. Attività indispensabile per contrastare la patologia di cui egli soffre, aggravata dalle attuali condizioni e da una inadeguata somministrazione dei farmaci che gli necessitano. Tanto è vero che nel corso degli accertamenti clinici di routine alcuni valori sono risultati alterati e sono emerse diverse problematiche che mettono a rischio la salute e la vita stessa del detenuto. L’indagato è apparso visibilmente provato dalle condizioni degradanti e disumane in cui viene costretto e dalle modalità trattamentali perseguite dall’attuale struttura penitenziaria”.
Cocci si trova in un carcere dove “si trovano stipati mafiosi veri e mafiosi d’ufficio, tossicodipendenti e malati psichiatrici, detenuti definitivi e quelli in attesa di giudizio e dove vengono costantemente disattesi Regolamento penitenziario, principi costituzionali e pronunce della corte europea dei diritti dell’uomo. Una condizione tanto più grave e intollerabile perché coinvolge direttamente l’esistenza di una persona incensurata e assistita dalla presunzione di innocenza, del tutto estranea all’ambiente carcerario e per questo particolarmente esposto alla insorgenza di psicopatologie che rischiano di provocare un definitivo annientamento della sua persona. Già molto provata dal provvedimento cautelare, del tutto sproporzionato ed in grado di distruggere la robusta reputazione e il credito sociale costruito dal dottor Cocco in anni di studio e lavoro”, rimarcano Rosaria Manconi e Erika Dessì, “totalmente dedicato alla vita ed alla terapia del dolore di migliaia di pazienti che a lui si sono affidati con fiducia e immensa gratitudine. Un ulteriore rischio, altissimo, di cui qualcuno dovrà prima o poi farsi carico, deriva, oltre che dall’isolamento logistico cui il trasferimento costringe l’indagato e da un regime detentivo atroce ed indegno di una società civile, anche dalla criminalizzazione secondaria che il provvedimento assunto dal Dap ha determinato, di fatto alimentando una condanna mediatica in grado di compromettere l’esito del futuro processo. Non può sfuggire, infatti, che, al di là della violazione degli elementari principi in tema di territorialità della pena, che in questo caso neppure è stata comminata, e degli accordi intervenuti fra Ministero e Regione Sardegna tesi a favorire la permanenza dei detenuti sardi nel territorio regionale, il trasferimento di Tomaso Cocco nella struttura penitenziaria siciliana, destinata ad accogliere detenuti di elevato spessore criminale e pluricondannati per reati di mafia, induce a pericolose suggestioni e pulsioni populiste in grado di pregiudicare il legittimo diritto di difesa dell’indagato, compreso quello di poter incontrare i difensori ogniqualvolta sia necessario per svolgere attività di indagine preventiva. Anche sotto questo profilo, quindi, il provvedimento di trasferimento appare del tutto illegittimo, abnorme e adottato in aperta violazione dei diritti fondamentali dell’indagato. Il quale, si ripete all’infinito, è totalmente incensurato e garantito dal principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza sino a condanna definitiva”. Le due legali vanno avanti con la battaglia “sia per il trasferimento in Sardegna e sia per la scarcerazione”.











