Di Paolo Rapeanu
pensieri-preoccupazioni principali sono quelli a prima vista più scontati ma, non essendoci, provocano lacerazioni e ferite difficili da curare. Maurizio ha 38 anni, una moglie, due figli di 4 e 9 anni, e un lavoro. È magazziniere in un capannone di un grosso centro commerciale sardo. La fortuna di avere un’occupazione, fin dal 1999, si trasforma in incubo due anni fa. “Quando inizio a dover lavorare anche le domeniche e i festivi. Non ho più tempo per stare con la mia famiglia e fare passeggiate o andare da qualche parte con i miei figli. Rientro a casa nervoso, stanco e stressato, non ho voglia di fare nulla”, spiega, con lo sguardo che va da una parte all’altra quasi alla ricerca di una soluzione che, purtroppo, non c’è.
“Le aziende, tutte le aziende, trattano in modo sleale i propri dipendenti, è il trionfo del consumismo. La nostra cultura non prevede il lavoro domenicale, attualmente manca un fattore fondamentale, la meritocrazia”, afferma il magazziniere. Una sola automobile in famiglia, “serve a me per andare a lavoro, mia moglie deve accompagnare i nostri figli in chiesa e al catechismo a piedi”. Un domani, da grandi, il rischio è quello di un’”accusa” da parte dei figli, incentrata sull’assenza del padre. “Tante volte gli spiego che papà è un lottatore, che cerca di fare di tutto perché i diritti dei lavoratori siano salvaguardati”. C’è spazio addirittura per “delle ritorsioni, già subite dall’azienda, ecco perché preferisco non mostrare il mio volto”.
Lavorare in un magazzino, tra migliaia di prodotti da sistemare, con la tecnologia diventa un calvario infinito: “Per comunicare tra colleghi utilizziamo le cuffie, non ci guardiamo più negli occhi, rispondiamo solamente agli ordini dell’azienda”. E la busta paga, nonostante domeniche e festive passati tra scatoloni ricolmi di cibo da caricare su un camion o l’inventario di tutti i prodotti presenti, non è più piena: “Nessuna differenza a livello economico, non cambia proprio nulla”.











