Tutto, ma proprio tutto, caduto nel vuoto. E in un silenzio quasi irreale. Come se un 30enne ammazzato a fucilate in una città di ventiduemila abitanti, in pieno giorno, col tempo non faccia più notizia. Francesca Podda, 47 anni, caregiver, è una donna disperata: da undici anni e mezzo spera di poter ottenere giustizia. Suo fratello Giancarmine riposa al cimitero di Capoterra dai primi di aprile 2012: il giorno due, fuori dal bar Baraonda, due colpi di fucile lo fanno stramazzare al suolo. Due proiettili che gli spezzano la vita, e una famiglia che dal quel momento non riesce a darsi pace. Tre uomini assolti, un assassino che non c’è. “Ma che ci dev’essere, è ovvio”, tuona Francesca, mentre guarda insistentemente le foto di suo fratello postate in un gruppo in sua memoria su Facebook: “Da diciassette mesi attendiamo che la procura dia una risposta importante. La mia avvocatessa Sabrina Rondinelli ha presentato un’istanza di riapertura delle indagini”. Una richiesta importante, alla quale però ha fatto seguito “il silenzio. Mi sento abbandonata dallo Stato, è come se fosse un delitto di serie B. Penso che possa aver influito anche il blocco generale legato alla pandemia, ma siamo arrivati a novembre 2021 e, per tutti, è quasi come se mio fratello non fosse mai esistito. Ma lui è nato, è cresciuto ed è stato ammazzato”. Non ha potuto veder crescere i suoi nipotini, Giancarmine Podda, non ha potuto abbracciare la sorella per le conquiste ottenute a livello lavorativo e sociale. Su Facebook, nel gruppo dedicato, c’è una media di cinque-sei post al mese di persone che lo ricordano, in lacrime. Sono i suoi parenti e i suoi amici più cari.
A giugno 2020 l’avvocatessa Rondinelli chiede la riapertura del caso: “Ci sono tre persone, due uomini e una donna che, secondo le nostre piste, devono essere indagate, la pista che seguiamo è di tipo sentimentale, c’è di mezzo una donna. Vogliamo anche la riesumazione del cadavere perché dev’essere eseguito un nuovo esame autoptico” e indica anche una possibile pista nelle “immagini di una telecamera che, il 2 aprile 2010, aveva ripreso la discussione tra Giancarmine e un uomo con una cuffia in testa”. Tutto pochi minuti prima degli spari, con “un’auto che si allontana a tutta velocità”. A sessantotto settimane di distanza, però, tutto tace: “Ogni giorno mi sveglio e penso che chi ha ucciso mio fratello non sta pagando per ciò che ha fatto. Non voglio passare tutta la vita nel tormento”.










