«Un giorno, forse, dalla Vittoria nascerà la vita». Ma per ora c’è una storia di macerie da smaltire, e di sconfitti rimasti a osservare la disfatta in equilibrio tra quelli che prendono e quelli, appunto, che perdono. È tutto ancora qui: Troia capitolata, l’inganno rappresentato dalla testa di un cavallo, una scena di veli e paratie che occultano solo in parte gli attori: ombre superstiti, regine senza più regno, vedove, madri senza più figli costrette a raccoglierne da terra gli stracci, perché solo questo resta delle loro doglie. L’epica del disastro è in una scena spoglia, stilizzata: il baldacchino che è telaio di barattoli di latta, gli uomini che precipitano al centro, a testa in giù, lungo l’imbuto della guerra: la stessa, da millenni. In scena, donne che non piangono. Ridono, come Filò; cantano addirittura, come Cassandra nel suo delirio di girotondo che annuncia il «tutti giù per terra». O, come Polissena, offrono il loro corpo alla Giustizia degli uomini, condannate per tradimento nella pantomima dell’Onore.
La guerra è oscena, e non c’è decenza in questa macelleria. Sono i re stessi a sacrificare i loro figli. Il potere comanda (obbedisce, in fondo) senza vedere. È un generale corazzato che avanza minaccioso sui coturni, ma è bendato, e intercala il suo monologo con un sibilo di polmoni malati – muovendosi a scatti, segmentando ogni gesto come un automa, perché è servo della Storia. Si giustifica parlando di collettività e di interesse generale, ma è il Male che si staglia sul fondale al battito assordante e sincopato di un elicottero in ricognizione sulla catastrofe.
La straordinaria potenza visiva e acustica dell’Ecuba di Giancarlo Biffi è nell’ineluttabilità di questa apparizione, nei suoni e nel rimbombo sepolto della coscienza sporca, negli alibi di un discorso che deve sottostare alla grammatica del sangue. Così, le donne che imbracciano l’urna non possono che lanciare in aria manciate di cenere. Questa pioggia sul palcoscenico rimanda a un coro pietoso, contraltare della tragedia. E il pensiero dell’oggi, la nuova cenere, si mescola alla vecchia.
Tutto ciò che la finzione teatrale può suggerire – sull’insensatezza della ragion di stato – in Ecuba è suggerito; ogni simbolo lumeggiato nell’oscurità dei tempi al cospetto degli spettatori immersi nel buio. La regia, gli attori stessi, ogni dettaglio richiamano dentro una vera e propria maledizione politica. E a soffrirla nella forma più alta, con la consapevolezza che solo una regina possiede, è la stessa Ecuba, la maschera, il passo, la danza di Lia Careddu che d’improvviso diventa anche Priamo. E noi tutti, allora, riscopriamo la magia del Teatro.
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