Suicidio in cella a Uta: “La pandemia rende il carcere disumano”

Radio CASTEDDU, Maria Grazia Caligaris (Socialismo Diritti Riforme): “L’aspetto sicuramente della pandemia ha in qualche modo interrotto tutte le attività che venivano svolte all’interno delle strutture penitenziarie e, in particolare, l’attività dei volontari che hanno creato un rapporto di continuità con la popolazione detenuta”


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Detenuto si taglia la gola nel carcere di Uta, l’ennesimo caso di suicidio tra le sbarre. A Radio CASTEDDU, Maria Grazia Caligaris (Socialismo Diritti Riforme): “L’aspetto sicuramente della pandemia ha in qualche modo interrotto tutte le attività che venivano svolte all’interno delle strutture penitenziarie e, in particolare, l’attività dei volontari che sono quelli che hanno creato un rapporto di continuità con la popolazione detenuta, sia nella sezione maschile che in quella femminile. Oltre la pandemia, le distanze che ci sono per raggiungere l’istituto Penitenziario, che è un proprio villaggio, dove ci sono mediamente 600 detenuti, quindi c’è una condizione di numeri regolamentari che, sembra, siano ampiamente superati e dove c’è, soprattutto, una problematica di carattere psichiatrico all’interno della struttura di Uta, in generale, però, in quelle sarde.
Il numero dei detenuti con problematiche di natura psichica sono veramente numerosi. Abbiamo necessità di centri che possano garantire una cura adeguata a persone in difficoltà. È anche vero che purtroppo, talvolta  sono i detenuti che riescono a dissimulare meglio il loro stato emotivo: quelli che maggiormente sono esposti a episodi irreparabili, il più delle volte appaiono come persone tranquille che non manifestano un particolare disagio.
Quello che è accaduto ha suscitato sgomento in tutti anche per il modo che ha scelto, una morte atroce, cioè quella di tagliarsi la gola. In questo caso si è trattato di una di una condizione che denuncia un concetto di solitudine così profonda e così inarrivabile a chiunque: era determinato a non darsi scampo perché l’uso più frequente è quello dell’impiccagione, che a volte è un richiamo di attenzione, ma in questo caso esprime una decisa volontà a farla finita per una vita che evidentemente gli pesava troppo e, ovviamente, le condizioni detentive non aiutano. La situazione nel carcere di Uta è una situazione “normale”: ci sono degli spazi, anche delle occasioni di socialità tra detenuti, ma si capisce bene che davanti alla pandemia le possibilità anche di avere delle relazioni più serene  diventa sempre più difficile.
È difficile avere dei colloqui con i familiari, che sono ridotti al minimo e che passano, il più delle volte, attraverso il computer quindi con dirette Skype, a distanza, l’impossibilità di abbracciare i figli, di poter trascorrere delle occasioni a livello umano. La disumanizzazione creata da questa pandemia grava profondamente sia sulla famiglia dei detenuti che sulle persone che hanno perso la libertà, sulle donne che in maniera particolare  soffrono ancora più forte della condizione di solitudine”.
Risentite qui l’intervista a Maria Grazia Caligaris del direttore Jacopo Norfo e di Paolo Rapeanu
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