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Qualche linea di febbre il tre novembre, la necessità di stare a casa e poi, per tornare al lavoro, il certificato del medico. Che non può arrivare, a distanza di diciassette giorni, perché Maria Luisa Fiore, 52enne cagliaritana, non sa se è positiva o negativa al Coronavirus. Abita a Cagliari, la donna, ma quando i medici dell’Usca l’hanno visitata e sottoposta al tampone sierologico, il sei novembre, si trovava nell’abitazione del compagno: “Lui è negativo, è stato più fortunato di me e, dopo email di reclamo, gli hanno fatto avere l’esito: risulta processato il dieci novembre al Santissima Trinità. Ma non può comunque uscire perché siamo contatti stretti e non si sa se io sia o meno positiva”, racconta la donna a Casteddu Online. La donna ha inviato due email, una al laboratorio Covid referti dell’Ats il 18 novembre e l’altra, nella stessa data, al laboratorio del Santissima Trinità: “Nessuna risposta”. E la situazione non è quella di una semplice, per quanto snervante, attesa.
“Tutti i pomeriggi la febbre è fissa a 37,7. Il mio medico di famiglia, anche se non c’è la certezza, mi ha prescritto una terapia come se fossi positiva al virus: eparina e cortisone. Per fortuna sto lavorando da casa, ma è assurdo che io e il mio compagno non possiamo mettere il naso fuori solo perché non arriva l’esito del mio tampone. Inoltre”, aggiunge la 52enne, “se io dovessi essere positiva, a quel punto dovremmo fare un’altra quarantena. È come vivere in una gabbia”.