Un argomento sempre attuale, le locandine che illustrano la tematica sono appese un po’ ovunque per ricordare, far presente, aiutare e prevenire la violenza domestica, quella contro le donne che si può manifestare sotto tanti aspetti. A volte incoglibili, forse non accettabili psicologicamente dalle vittime che, infelici e increduli sopportano, cadono nella rete dell’uomo che amano e che mai si sarebbero aspettate di cedere innanzi a manifestazioni di violenza. Perché i segni sono chiari e tangibili per chi sta al di fuori della relazione tossica in cui la vittima, inerme, cade e si intrappola, ma disarmanti e immobilizzanti per chi li vive. Sensibilizzare sull’argomento è la parola d’ordine, quindi, soprattutto le nuove generazioni che devono crescere con la consapevolezza del rispetto e del vero amore verso il partner e il prossimo in genererale.
I giorni scorsi la presidente e Carla Sanjust, insieme alla preside della scuola, hanno consegnato i premi ai vincitori del concorso bandito dal club in occasione dell’incontro tenutosi il 25 novembre scorso con gli studenti del primo e secondo anno dell’istituto “Michele Giua” per presentare la Campagna Read the Signs e illustrare il fenomeno della violenza sulle donne e il senso della Giornata ONU per la sua eliminazione.
Il Concorso Read The Signs prevedeva la preparazione da parte degli studenti e studentesse di un power point o un video dedicato alla violenza domestica, con particolare riguardo ai comportamenti sintomatici di una relazione affettiva malata e come tale suscettibile di degenerare, attraverso la sopraffazione e il controllo della donna, in una relazione violenta, produttiva di danni fisici e mentali per le vittime e pregiudizievole per l’intera società. La violenza familiare, infatti, crea sofferenze e disagio ai figli minori che vi assistono e ne compromette il percorso di crescita, perché li educa ad immaginare i rapporti interpersonali come “naturalmente” improntati a soprusi, botte e umiliazioni, e a ripetere quel modello comportamentale da adulti, con la conseguente perpetuazione del fenomeno.
Ma come riconoscere i segnali di una relazione tossica? Eccoli in sintesi: intensità, ossia esagerare con i gesti, insistere perché le cose si facciano subito serie, sommergere la “preda” di messaggi e di email. Gelosia: impedire di parlare con persone dell’altro sesso, insistere di conoscere dettagli privati della vita altrui, oltrepassare i limiti personali, controllo non consentito del telefono o delle email. E ancora: limitazione dell’abbigliamento e comportamento, presentarsi ad eventi personali anche non essendo stato invitato. Isolamento, cioè impedire di vedere gli amici o la famiglia, assorbire tutto il tempo libero, parlare male dei contatti social, criticare e impedire di parlare con persone dell’altro sesso. Insistere di conoscere dettagli privati della vita del partner, oltrepassare i limiti personali.
Manipolazione: nascondere le cose o mentire insistentemente facendo credere alla donna di essere pazza, far perdere giorni di scuola o lavoro, accuse, renderla responsabile e incolparla dei suoi problemi rifiutando la propria responsabilità. Collera, gravi sbalzi d’umore, reazioni eccessive ai problemi con manifestazioni incontrollabili, pressione sessuale e ansia.
Il meccanismo che si innesca è devastante, la donna è succube, devastata, infelice ma, paradossalmente sempre più “innamorata”, legata al suo aguzzino che detiene il pieno possesso e controllo della sua preda.
Una violenza psicologica che logora l’animo e dalla quale è difficilissimo uscirne. O addirittura capirlo. Ecco perché è importante la comunicazione, la prevenzione, l’informazione e le raccomandazioni a rivolgersi alle forze dell’ordine e ai centri antiviolenza. 112, 113,1522 sono i numeri da comporre oppure confidarsi con amiche e parenti. Parlarne, insomma: se si subisce anche solo una di queste forme di violenza la raccomandazione è quella di trovare la forza, il coraggio di affrontare il problema. E di non cedere alle sue parole strappalacrime “ti prometto che cambierò” poiché questa è solo utopia e mai, purtroppo avverrà.
Frasi scontate? Per niente. Giungono dalle donne vittima di violenza e che si confrontano tra loro una volta al mese presso i centri preposti. La dinamica è sempre la stessa e, per fortuna, se hanno la possibilità di parlare è perché sono vive, anche se con l’animo a pezzi, distrutto da un amore malato, che amore non è, poiché l’amore rende felici, dona serenità. Non tradisce e non mente ma congiunge e fa battere il cuore ogni giorno.
A tal proposito intervengono due figure politiche che, nel corso degli anni, si sono distinte per aver portato avanti numerose campagne di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne e proposte serie, concrete affinché chi è vittima possa liberarsi del “mostro”.
“Ho appurato durante i tre anni assessoriali di cui 2 e mezzo in piena pandemia Covid-19 che le violenze domestiche contro le donne sono cresciute – spiega Tiziana Mori ex assessore alle Politiche sociali di Monserrato – e quando presenti nel nucleo familiare, ne sono vittima anche i minori, costretti ad assistere e spesso a subirle direttamente.
In questi quadro drammatico, è fondamentale il ruolo di tutele legali e dei centri antiviolenza in stretta collaborazione con forze dell’ordine e servizi sociali”.
Una sinergia tra gli enti preposti, fare rete, insomma, per tutelare chi è vittima di violenza.
“Assume primaria importanza informare chi ha subito violenza di poter affidarsi sul sostegno e sull’assistenza dei Centri Antiviolenza, che sono presidi territoriali specializzati il cui compito è di lavorare con lo scopo di sostenere le donne e, qualora fossero presenti, i loro figli e figlie, accompagnandole in ogni fase del percorso di liberazione dalla violenza.
Nonostante un lavoro incessante svolto negli ultimi 20 anni, la violenza domestica e quella assistita sono fenomeni ancora in gran parte sommersi anche per via del contesto socio-culturale, che porta spesso a negarne o a sottostimarne la gravità dell’atto, quasi giustificandolo (esempio nei colloqui si sente spesso dire la frase ‘era solo nervoso’), mentre è fondamentale agire tempestivamente per prendere in carico le vittime nel più breve tempo possibile.
Purtroppo, si assiste anche al fenomeno del cd victim blaming,
un processo psicologico riguardante la tendenza a colpevolizzare le vittime (il concetto di “victim blaming” è stato utilizzato per la prima volta nel 1976 dallo psicologo William Ryan).
Questa diviene una delle forme di vittimizzazione secondaria, poiché sposta l’attenzione dall’autore della violenza con colpe e responsabilità verso chi l’ha subita. Questo è anche uno dei motivi per cui spesso le donne temono e sentono di non essere credute, provano sentimenti di colpa e vergogna per ciò che stanno vivendo o hanno vissuto e per questo possono decidere di non denunciare o di farlo tardi.
Per contrastare la violenza contro le donne bisogna cominciare dalla scuola, con azioni di sensibilizzazione e corsi volti a divulgare valori e modelli aperti di identità e di famiglia.
In tal modo, si possono abbattere dalla radice, iniziando dall’età scolare, quelle condizioni culturali e sociali che favoriscono la violenza sulle donne, così come i fenomeni di omofobia e di bullismo”.
Stessa opinione viene esposta da Carla Medau, ex sindaco di Pula e sempre in prima linea in dibattiti e manifestazioni a riguardo: “La violenza contro le donne è un fenomeno sociale di dimensioni enormi, che va combattuto ed è inaccettabile il numero delle morti. Un bollettino di guerra perché non accennano a diminuire. È un fenomeno innanzitutto culturale che si basa su stereotipi e pregiudizi che sono radicati nella società, che vedono l’uomo in una posizione di superiorità soprattutto nell’ambito familiare, domestico in cui esercitano i ruoli che tradizionalmente gli sono assegnati. Essendo principalmente un fenomeno culturale è evidente che la scuola è un luogo privilegiato per impartire un’educazione all’uguaglianza di genere: è fondamentale incentivare nelle giovani generazioni la capacità di costruire rapporti e relazioni basate sui principi di equità, rispetto dell’altro, di parità di inclusività e soprattutto riconoscere e valorizzare le differenze o promuovere al meglio le unicità di cui ciascuno di noi è portatore e portatrice.
La scuola ha quindi il compito di formare le nuove generazioni e svolge un ruolo molto importante. Con le leggi sicuramente abbiamo raggiunto un quadro normativo abbastanza importante a partire dalla convenzione di Istanbul che, dal punto di vista normativo, è uno strumento completo e integrato a tutela delle donne”.
L’educazione al rispetto, pertanto, partendo dall’istruzione obbligatoria: “È fondamentale che si includano nei programmi scolastici, di ogni ordine e grado, i temi quali la parità tra i sessi, il reciproco rispetto, la soluzione della non violenza nei rapporti interpersonali”.
Le norme, le azioni da mettere in campo associate, però, “in un intervento più strutturale e quindi non deve essere lasciato alla libera iniziativa dei direttori e dei dirigenti scolastici.
È proprio dall’infanzia che si devono creare occasioni di confronto per educare alla non violenza, serve un grande lavoro di sensibilizzazione e prevenzione proprio per evitare la violenza maschile sulle donne e, soprattutto, educare a relazioni non violente. Questo vuol dire che dobbiamo educare e dobbiamo introdurre l’educazione emozionale perché questa interviene proprio sull’aspetto emotivo nei processi di crescita e di apprendimento dei bambini e degli adolescenti, proprio per metterli in grado di riconoscere le proprie emozioni e anche di saperle gestire.
Noi abbiamo appositamente creato un percorso nelle nostre scuole, parlo di Pula, finalizzato al riconoscimento delle proprie emozioni, dei propri conflitti e quindi sono dei programmi educativi condotti da personale qualificato e specializzato che sono stati finanziati dalla mia amministrazione per oltre un triennio. Con le leggi si può chiedere il rispetto delle stesse regole ma sostanzialmente non ci consentono di modificare i comportamenti che, appunto, nascono, che hanno una radice e un’origine ben più profonda. È stato approvato dalla commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio una relazione sul linguaggio, sull’educazione scolastica, la formazione universitaria per prevenire la violenza di genere. Questo è stato un lavoro presentato a metà ottobre del 2022, un passo molto importante perché sono le istituzioni che devono occuparsi di questo margine; da parte della commissione parlamentare d’inchiesta c’è stato un ulteriore un’ulteriore passo importante, cioè la costituzione della commissione bicamerale di inchiesta sul femminicidio che è stata approvata all’unanimità il 24 novembre del 2022 quindi è un approccio sistematico, ragionato alla violenza di genere che coinvolge, in ogni caso, diversi ministeri come quello appunto dell’Istruzione, della Giustizia e quant’altro dal piano strategico contro la violenza degli uomini sulle donne”.
Servono degli interventi molto incisivi, azioni mirate che “in questi casi sono molteplici e certamente, trattandosi di un fenomeno culturale, è necessaria la formazione di operatori ed operatrici. Questo aspetto, che viene richiamato anche nel piano strategico 2021 2022, vede la necessità di educare gli educatori, gli operatori di giustizia, gli operatori del sistema sanitario proprio perché venga ad eliminarsi la cosiddetta vittimizzazione secondaria, quando cioè la vittima subisce un ulteriore violenza in quanto non viene creduta o viene messa in discussione o in dubbio che sia stata veramente vittima di violenza.
Spesso proprio il primo approccio è quello che fa desistere la donna dal continuare la sua denuncia, perché spesso le persone con cui vengono in contatto tendono a minimizzare e quindi non riconoscono gli elementi della violenza, non riconoscono i segnali. Spesso può accedere che vengano confusi la violenza psicologica, economica, fisica con un conflitto tra una coppia, familiare e qua si blocca la capacità, la motivazione della donna ad andare avanti.
Quindi è assolutamente fondamentale educare gli educatori è necessario sospendere la potestà genitoriale, è necessario introdurre l’utilizzo del braccialetto elettronico e l’allontanamento immediato dalla dimora che va preservata per la donna. È necessario assolutamente intervenire sulla bigenitorialità imposta per la quale centinaia di minori sono strappati da madri che hanno denunciato il padre per violenza e abusi sessuali”.
Non solo: “È opportuno sostenere con adeguate misure e risorse i centri antiviolenza che sono degli straordinari presidi di rete, di primo intervento ma anche proprio di cura e presa in carico delle donne vittime di violenza e che creano una rete territoriale capillare ed efficace. Prevenzione, protezione, punizione dei colpevoli e promozione per introdurre un percorso di consapevolizzazione di empowerment economico, finanziario, lavorativo di autonomia abitativa”. La violenza può anche essere economica non solo fisica, una violenza nascosta che necessita “di forme di collaborazione tra istituzioni, imprenditoria e centri antiviolenza: è molto importante che le donne vittime di violenza non fuoriescono dal mondo del lavoro e quindi è necessario che ci siano percorsi di formazione di eccellenza con tirocini retribuiti, misure come gli incentivi all’occupazione, il reddito di libertà, il microcredito di libertà e dare la possibilità per sei mesi di utilizzare il congedo per le donne vittime di violenza.
E ancora, i contributi per il supporto al lavoro autonomo femminile, quindi percorsi di autonomia economica e soprattutto quelli che vengono fatti dalla rete, appunto, dell’accoglienza di cui parlavo prima, quindi le case rifugio”.
Una serie di azioni specifiche in modo che le donne possano reinserirsi nella vita sociale ed economica della nostra società: “Da tutto questo si deduce che non deve mancare il ruolo della politica quindi il Parlamento deve introdurre dei cambiamenti, dar vita a delle leggi che siano integrate, coerenti tra di loro perché davvero si innesti un cambiamento normativo culturale o, ancora una volta, la vita delle donne sarà in pericolo”.










