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“L’Angolo del diritto”, a cura dell’Avv. Matteo Cabras
È noto che, in Italia, la durata media dei procedimenti giudiziari è lunghissima, tanto da rischiare di produrre il collasso del sistema giudiziario nel suo complesso; basti pensare che per ottenere una sentenza di primo grado relativamente ad una causa civile occorre attendere, mediamente, oltre 5 anni. E’, invece, forse meno noto che da alcuni anni esiste un rimedio facilmente azionabile per tutti quei giudizi i quali abbiano superato la soglia di tollerabilità in quanto a lunghezza. È data, infatti, al cittadino l’opportunità di vedersi risarcito il tempo perduto, attraverso una sorta di indennizzo per i danni sofferti dalla eccessiva durata del processo. La legge 24 marzo del 2001, n. 89, recante “Previsioni di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile” (di seguito la “L. Pinto”), ha appunto lo scopo di rendere effettivo a livello interno il principio della “durata ragionevole” del processo, previsto dalla Costituzione e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4.11.1950 e ratificata in Italia con legge n. 848/1955). Attraverso questa legge si è inteso rimediare alle lungaggini giudiziarie ed evitare sanzioni per il nostro Paese, arginando le ripetute condanne riportate dall’Italia ad opera della Corte di Strasburgo.
L’art. 2 della L. Pinto stabilisce infatti che “chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione, ha diritto ad una equa riparazione”. Recentemente, il D.L. n° 83/2012 (c.d. “Decreto Sviluppo”), convertito con L. n. 134 del 7 agosto 2012, ha modificato in modo rilevante la L. Pinto. I presupposti per ottenere un indennizzo ai sensi della L. Pinto sono di due tipi: soggettivi ed oggettivi. Dal punto di vista soggettivo, è necessario che un soggetto (persona fisica o giuridica) sia o sia stato parte di un procedimento giudiziario, in qualità di attore o convenuto.
La L. Pinto si applica a tutti procedimenti, civili, penali e amministrativi, ad eccezione di: a) giudizi in materia tributaria che abbiano ad oggetto la potestà impositiva dello stato, salvo che l’oggetto della controversia tributaria sia, ad esempio, una richiesta del contribuente di rimborso di imposta indebitamente pagata; b) procedimenti promossi con il ricorso straordinario al capo dello stato; c) procedure di liquidazione coatta amministrativa. La L. Pinto non distingue se si tratti di parte soccombente o vittoriosa nel processo; infatti il rimedio è esperibile anche in pendenza del giudizio, cioè prima che questo si sia concluso con sentenza definitiva. Il diritto a proporre la domanda di equa riparazione per irragionevole durata del processo spetta anche agli eredi delle parti del processo durato troppo a lungo. Il requisito oggettivo riguarda la durata del giudizio, che deve essere o deve essere stata patologicamente lungo, cioè abnorme rispetto ai normali giudizi. Quando può dirsi abnorme la durata di un processo? Il D.L. n° 83/2012 ha stabilito la durata ragionevole del giudizio nei seguenti termini, che decorrono dalla data dell’atto introduttivo del giudizio: 3 anni per il giudizio di primo grado; 2 anni per il giudizio di secondo grado; 1 anno per il giudizio di cassazione.
Dalla violazione del termine ragionevole del processo possono derivare due distinte voci di danno: il danno patrimoniale e il danno non patrimoniale. Il danno patrimoniale è soggetto alle ordinarie regole probatorie di cui all’art. 2697 c.c.; grava cioè sulla parte che agisce per ottenere l’equa riparazione l’onere di dimostrare il danno patrimoniale lamentato. Per ottenere l’equa riparazione del danno patrimoniale subito, occorre quindi dimostrare che sia il danno emergente che il lucro cessante siano la conseguenza immediata e diretta della durata eccessiva del procedimento. Per quanto attiene invece al danno non patrimoniale, la giurisprudenza ritiene che tale danno non necessiti di alcuna prova da parte del ricorrente; il giudice deve riconoscerlo e liquidarlo ogni qualvolta non ricorrano circostanze particolari, nel caso concreto, che facciano escludere che tale danno sia stato subìto dal ricorrente. In sostanza, non spetta al ricorrente dover provare il danno non patrimoniale sofferto, bensì all’Amministrazione convenuta provarne l’insussistenza nel caso concreto.
Per quanto attiene alla quantificazione del danno, la giurisprudenza ha determinato l’entità del risarcimento del danno non patrimoniale tra un minimo di 500 e un massimo di 1.500 Euro per ogni anno di sforamento rispetto alla durata ragionevole della causa sopra descritta, o per frazioni di anno superiori a sei mesi, del limite del grado di giudizio. La determinazione di un importo eventualmente superiore non potrà mai essere superiore al valore della causa. Nella determinazione dell’importo dell’indennizzo, l’autorità giudiziaria dovrà tener conto della condotta del giudice e delle parti, degli interessi coinvolti e del valore della controversia; nessun risarcimento potrà essere chiesto dalla parte che si sia resa responsabile di condotte processuali dilatorie. Ad esempio, ipotizzando che Tizio sia stato coinvolto in un processo civile la cui durata è stata di nove anni per i due gradi di giudizio, Tizio avrà diritto di ottenere, a titolo di risarcimento ai sensi della L. Pinto, un importo variabile da € 2.000 a € 6.000, corrispondente a 4 anni eccedenti la durata ragionevole del processo. Il risarcimento è dovuto a prescindere dall’esito della lite per la parte ricorrente, cioè sia che essa perda, vinca o concili la lite davanti al giudice.
Per approfondimenti specifici e/o informazioni lo studio rimane a disposizione previa segnalazione all’indirizzo e-mail: [email protected]