di Carlo Carta
Parto sempre da lontano. Quella Nuragica era una comunità nel più ampio significato espressivo che la stessa parola offre. Gestiva interamente il potere politico garantendo la libertà di fare… ma non di affare. Elaborava la morale e la cultura e ne produceva i simboli. La sua massima espressione di libertà: il Nuraghe. Regolava l’economia garantendo la condivisione collettiva dei prodotti e quindi affermando la piena solidarietà.
Ma questo senso di comunità andava ben oltre, visto che interveniva direttamente sulla condizione esistenziale dell’essere. Nel senso che se si coinvolgeva interamente l’uomo in un organismo come questo destinato a vita lunga, e mantenendo un rapporto continuo con i defunti, essa, la comunità, faceva sentire meno angoscioso e doloroso il sentimento della morte individuale e alleggeriva persino il peso della solitudine. Morte e solitudine erano un tempo meno terribili di quanto appaiono all’individuo malato di protagonismo e consumismo nella nostra attuale società. Halloween non è una festa consumistica come si crede, è di origine celtica. E’ pur sempre figlia di quel sogno americano, di quella loro idea di felicità e successo da raggiungere abbattendo tutti gli ostacoli che Natura e Società frappongono. Figlia di quell’idea di spazzare via gli oppositori e usufruire della massima libertà, di poter fare tutto ciò che si vuole. Seppur di fronte alla morte anche il ricco e potente ha qualche difficoltà in più ad abbandonare potere, sfarzo, prestigio e soprattutto le ricchezze accumulate nel tempo. Nella “Sardinia Felix” il concetto di felicità si reggeva invece su una umana e mondana moralità da cui nasceva una concezione della vita sostanzialmente laica, libertaria, egalitaria, edonistica. I nostri antenati, è molto probabile, che la vita se la godevano tutta. Senza sprecare e senza pentimenti postumi. Avevano forse capito, o meglio mi piace pensarlo, che la felicità non è una condizione individuale ma sociale. O si è tutti felici o nessuno lo è. La storia ci insegna che mangiare bene e bere meglio sono sempre stati abitudini in cui abbiamo sempre primeggiato. D’altronde i viaggiatori stranieri dell’800 nei loro racconti si son sempre meravigliati della qualità e quantità del cibo che venivano loro offerti nell’ospitalità. Già il donare, a chi momentaneamente non ha o non può disporre, ai bisognosi come ai bambini. Is Animeddasa vengono da lontano e sbaglia chi pensa sia solo un modo di esorcizzare la morte.
Nelle piccole comunità, per i nostri antenati la morte era un evento straordinario che coinvolgeva tutti nel lutto e nella celebrazione. Morire era un fatto naturale, comprensibile ed accettato da tutti sebbene doloroso. Si viveva per essere felici. Ed una vita vissuta felicemente poteva ben essere la ricompensa della morte, il risarcimento della perdita. Oggi la gente non pensa più alla felicità. La stessa parola non si usa quasi mai, non si ha mai tempo per la felicità, in troppi la considerano vuota. Tutti hanno fretta e pensano poco. Per questo chiamatelo Halloween o Is Animeddasa il concetto tanto è lo stesso, poiché sono il donare e il donarsi, che fanno la differenza in una società senza tempo e senza spazio come la nostra. In una bellissima ricerca fatta negli anni ’50 dalla mitica Maestra Livia Bernardini, poi ripresa dal più noto professore universitario Gino Cabiddu, suo collega e amico, si racconta che in Trexenta, ed in molte altre parti della Sardegna, nel giorno dedicato ai defunti, i poveri si recavano nelle case degli abbienti e dei proprietari del paese. Si chiedeva “sa fa po is motusu” (le fave per i defunti) dicendo “sa fa po i motus sus” le fave per i suoi morti. In questa occasione si mangiavano “fa a lissu o a buddiu” (fave lessate) e “fa cundia” in altro modo. Si donavano anche frutta secca, fichi secchi, mandorle, uva passa e persino “figu morisca”. E quando si cenava a tavola si conservava sempre un posto vuoto, per la persona e le persone care passati a mellus vida. Oggi tutto questo è quasi scomparso. Sono rimasti Halloween e Is Animeddasa, poco per offendersi se per un giorno si celebra la morte anziché la vita. In una epoca dove i più portano fiori finti ai defunti veri, ci sta che per almeno un giorno, ci si ricordi attraverso l’innocenza dei bambini o la dignità di chi poco ha, di chi non c’è più e soprattutto di chi ha più bisogno. Abituarsi alla morte non è di parte, ma un concetto universale, senza tempo e senza spazio. Atrus annusu!