Nella Sardegna stritolata dal lavoro che non c’è, ottenere un contratto rappresenta un evento addirittura superiore a quello di trovare acqua nel deserto. Eppure, ci sono mille rovesci della medaglia: alcuni dei quali fanno tremare le vene nei polsi. E fanno gridare, giustamente, allo scandalo. Una mamma di un bimbo di appena 15 mesi sceglie di rinunciare a una busta paga sicura, tutto perché l’azienda non avrebbe accettato una piccola modifica all’orario di lavoro. Le 20:30 come orario di fine, anziché le 19:30, non permettono, a una 35enne residente a Nuoro, di potersi prendere cura del suo piccolo. La neo mamma presenta le sue dimissioni, si reca al sindacato Cgil, e una sindacalista prova a fare un tentativo di “ricucitura” con l’azienda.
È Domenica Muravera, segretaria di organizzazione della Filcams Cgil della provincia di Nuoro, a raccontare con dovizia di particolari la vicenda. “La neo mamma ha presentato le dimissioni, spiegando che fa 48 ore settimanali, che diventano 40 contrattuali. Per il suo bambino ha trovato un asilo nido cittadino nel quale può restare fino alle 19. Il suo orario di lavoro è però spezzato, ci sono sessanta minuti di pausa tra la mattina e il pomeriggio. L’azienda le ha negato l’orario continuato. Io ho contattato la ditta, dall’altro capo del telefono mi ha risposto una donna, probabilmente la referente per il personale. Dopo avermi detto che è impossibile accettare la richiesta perché si creerebbero dei precedenti, decido di insistere”. Ed è a questo punto che, stando al racconto della sindacalista, l’interlocutrice perde la pazienza e dice, senza nessun problema: “Era proprio necessario farsi un figlio? Si assuma la responsabilità, se non può permettersi una tata, lasci il lavoro”. La conversazione si chiude, l’unica consolazione “a tempo” per la 35enne è la garanzia dell’indennità di disoccupazione.
“Purtroppo nel commercio non c’è il datore di lavoro che ha diretti contatti col lavoratore, le questioni intermedie come le assunzioni, anche nella grande distribuzione, vengono gestite tramite appalti. Su alcuni contratti ci sarebbe da mettere un punto interrogativo”, afferma la Muravera, che ha già seguito tanti casi simili. “Se un lavoratore si ammala non è tutelato, uomo o donna non fa differenza, è come se fosse in colpa. Idem per la maternità. Lo stipendio, poi, è bassissimo, al massimo 1100 euro al mese comprensivi di tredicesima, quattordicesima e Tfr. La donna che lavora e che vuole essere anche mamma non può e non deve rappresentare un problema”.