“La luna chiama”, il racconto di Lorenzo Scano ambientato a Capoterra

Orosegue il ciclo di racconti del giovane scrittore di Frutti d’Oro


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LA LUNA CHIAMA

 

 

Le cinque e dieci, e l’orologio appeso alla parete continuava a ticchettare solitario. Era uno di quegli aggeggi che, ad ogni mezz’ora, emetteva un cinguettio differente; la trovata geniale e fuori dalle righe di un noto artista locale. Ne contemplavo la foggia, elegante e pacchiana allo stesso tempo, quando la porta dell’ufficio si spalancò all’improvviso, riportandomi sul pianeta terra, mentre nella testa mi riecheggiava ancora il canticchiare di un merlo dal collare bianco. Una specie protetta, nei monti di Capoterra, che si poteva intravedere fra le fronde dei peschi e dei ciliegi in primavera, a rubare i frutti prelibati e poi volare via sotto il sole. Una prelibatezza per le fauci dei predatori.

“Ho ritrovato la ragazza” annunciò Efisio Bruni sulla soglia della porta. Eccolo lì! L’orologio era opera delle sue esperte mani di falegname. Indossava una vecchia camicia di flanella a scacchi, e calzava logore scarpe da montagna con la suola sporca di fango. Anche nell’oscurità semi totale dell’ufficio vedemmo che era bagnato fradicio, dalla testa ai piedi, e infreddolito come un cane senza pelo. Là fuori, in Via Cagliari, pioveva parecchio, e il disgraziato se n’era beccato una bella dose. “E’ nei boschi, su a Punta Mala”. La voce gli tremava appena. Fece una pausa, durante la quale udimmo solamente lo scrosciare della pioggia sulle finestre, e poi: “Dio l’abbia in pace. Non è un bello spettacolo da vedere. È morta, naturalmente”. La Regina di cuori mi scivolò via dalle mani, e planò ubriaca fino a cadere ai piedi del povero Bruni. Ero giunto al comando per sapere come si procedeva con le indagini, ed ecco realizzarsi la peggiore delle ipotesi: la foresta restituiva agli inquirenti, alla comunità, alla famiglia di Laura il cadavere della ragazza. La terza vittima in tre mesi. A Capoterra tutti sapevano che, circa al novanta percento, la piccola era morta; raramente, dopo più di tre giorni dalla scomparsa da casa, una minore veniva ritrovata ancora in vita. Le statistiche, gli studi degli esperti e dei criminologi parlavano chiaro. Anna Pergolesi e Lucia Sanna, le altre due adolescenti uccise rispettivamente a Settembre e Ottobre, erano state ritrovate a pochi giorni dalla scomparsa da casa. La prima a La Maddalena, dove le acque della mareggiata, ritirandosi, ne avevano rivelato la morte in tutto il suo pallore, il tronco diviso a metà dal bacino e le gambe. La seconda a Rio San Girolamo, in quella parte di campagna che si estendeva a ridosso delle casse di espansione del canalone. A tutt’e due l’assassino aveva tagliato la gola. “E’ peggio delle altre volte” proseguì Bruni, mentre cinguettando l’orologio ci avvisava che erano le cinque e mezza precise. “Sono scappato a gambe levate, sono tornato alla macchina e poi corso qui”. Il comandante Moruso, quel marcantonio che fino a pochi secondi prima dell’arrivo di Bruni, il falegname, stava sorseggiando una tazza di caffè caldo nel suo ufficio, si tirò in piedi con un balzo improvviso e rovesciò buona parte della bevanda sopra la scrivania. Stavamo giocando a carte, quella sera, in attesa che il temporale finisse e i tecnici del Genio Civile ripristinassero il blackout, quando Efisio aveva bussato alla porta ed era entrato tutto tremante. Alle sue spalle, due vaghe figure dai contorni sfumati, c’erano Mannai e Tolu, di ritorno dalla consuetudinaria ronda del litorale. Avevano sedato una rissa nel parcheggio de I Gabbiani, e riaccompagnato a casa un minore acchiappato a rubare una confezione di profilattici alla farmacia di Frutti d’Oro II; altre due news che sarebbero finite ad arricchire le pagine del giornale la mattina seguente. La luce fioca delle candele illuminava Bruni in maniera debole, gettando ombre piatte e arcane sopra il suo viso contratto in un’espressione di terrore atavico. Sembrava sotto shock, piccolo accorgimento che fece scatenare immediatamente la mia fantasia di scribacchino locale: la ragazza era proprio Laura Pioggi? Anche a lei avevano tagliato la gola? L’avevano violentata e poi abbandonata nella foresta a morire di fame e freddo? Moruso era un uomo grande e grosso, le cui larghe spalle da pallanuotista venivano scosse adesso dal respiro affannoso. Quella non era una bella notizia, per il tutore della legge numero uno a Capoterra. “Dov’è precisamente? Ci sai portare da lei?” chiese. Aggirò la scrivania, raggiunse il falegname, un ometto gobbo e minuto, e lo fece accomodare sulla sedia accanto alla mia, che avevo riposto carta e penna fra le tasche del giubbotto. Altro che intervista, quello era lo scoop del secolo, in una realtà di provincia dove non accadeva mai granché di eclatante, e nei due mesi precedenti erano state uccise due ragazze di diciotto e sedici anni. Ora la terza vittima, la figlia di un ricco imprenditore locale, veniva rinvenuta nella foresta mentre ero intento a interrogare Moruso circa il proseguo delle indagini. L’orologio seguitò a ticchettare.

Bruni annuì. Conosceva la montagna come le proprie tasche; era uno degli esperti più autorevoli di tutto il territorio, e aveva già collaborato, in passato, con le unità di soccorso del Corpo Forestale e i barraccelli. Più di una volta il suo aiuto, la sua conoscenza delle oasi e il suo fiuto montanaro si erano rivelati armi indispensabili nelle ricerche e nel ritrovamento di escursionisti e cercatori di funghi in difficoltà sui monti e nelle foreste del circondario. “Certo che sì” rispose fra i singhiozzi, mentre le gocce di pioggia gli ricadevano dai capelli sul colletto della camicia a quadri. Era un montanaro vero, anche nell’abbigliamento. Spesso lo si vedeva con addosso quei vestiti anche alle poste, a fare la spesa e in ristorante. “Ci si arriva a piedi. Dovremmo lasciare le macchine sulla strada. Ha piovuto tutta la mattina, i sentieri sono tutti allagati e impraticabili; si fa prima a tagliare dall’interno della foresta”. Un’altra pausa, e lo scrosciare della pioggia. “Dovremmo uscire prima che faccia buio” fece notare. Ci affacciammo alla finestra e scoprimmo che gli ultimi raggi di sole, quelli che riuscivano a penetrare le nubi, indietreggiavano in ritirata. Ancora pochi minuti, e la notte si sarebbe impadronita delle strade.

Moruso annuì, poi si rivolse a me: “Efisio ha ragione. Pisu, viene pure lei?”.

“E’ una domanda retorica, la sua” dissi. Sentivo già le mani che battevano sui tasti del mio pc, e vedevo la faccia del direttore quando gli avrei consegnato, per posta elettronica, una delle esclusive più eccitanti degli ultimi anni. “Capoterra: terzo omicidio in tre mesi. Ancora nessuna traccia dell’assassino” avrei titolato. Era un’impostazione del discorso cinica e prettamente lavorativa, me ne rendevo conto, ma quell’articolo mi sarebbe valso la promozione che aspettavo da tempo. Laura Pioggi faceva parte di una famiglia facoltosa, una delle più antiche di Capoterra. “Solo non le assicuro niente. Non ho mai visto un cadavere, lascerò scattare le foto ad uno di voi”.

 

Laura Pioggi, figlia di uno dei più ricchi imprenditori della zona, si era allontanata da casa la settimana prima, senza farvi più ritorno. A nulla erano valse le ricerche, condotte dai militari, dal Corpo Forestale, dai barraccelli e dalla polizia locale, per ritrovarla: di lei non si era più saputo niente da quella sera lì, quella del 2 Novembre. Era Ognissanti, e la città, dal centro alle frazioni periferiche, buia e deserta. I genitori, che possedevano una catena di grossi centri commerciali sorti di recente, la falegnameria e un’azienda viticoltrice, avevano allarmato gli uomini di Moruso solo la mattina seguente. Era l’alba, e un fortunale coi fiocchi, una bomba d’acqua ad alta attività elettrica, si allontanava da Capoterra fra una serie di lampi e flebili rumori di tuono sempre meno forti e paurosi. Gli uomini di Moruso, dodici agenti in totale, affiancati dalle varie squadre di ricerca, avevano perlustrato dappertutto, setacciando ogni minima via, ogni più nascosto e isolato casolare di campagna, lo stagno, le paludi e non per ultima, la montagna. “Crediamo sia morta” si era confessato con me quella sera Moruso, poco prima che iniziasse a piovere e la corrente ci abbandonasse in maniera definitiva. “Una settimana è parecchio tempo. Abbiamo ragione di credere, dati i casi come questo, che Laura Pioggi sia già cadavere. È raro che dopo tre giorni, addirittura una settimana, una sedicenne sia ancora viva. A meno che non si sia allontanata da casa di sua spontanea volontà, ma purtroppo, caro Pisu, questo non è il nostro caso”. Avevo annotato quelle considerazioni sul mio taccuino, insieme agli altri appunti, prima che il comandante mi consigliasse (in tono più che autoritario; gli riusciva davvero bene) di ritardare e evitare la divulgazione di una simile notizia. “I tuoi colleghi dell’Unione sono voraci, non fanno che telefonare e chiedere informazioni sulle indagini, senza darci un attimo di tregua. Peggio degli sciacalli. I cittadini pure. Ieri sera in consiglio comunale hanno…”. Un fulmine frastagliato, una saetta arancione, si era riflesso sulla finestra. Il fragore del tuono, un boato pauroso: vetri e pareti avevano vibrato forte, scuotendo pure l’orologio fatto a mano con dovizia da Bruni.

“Lo so, lo so” avevo detto a Moruso. “Ero in prima fila, l’articolo di stamane era mio. La situazione stava degenerando, c’era un gruppo di loro, dei parenti dei Pioggi credo, pronti a rivoltare la sala consiliare”. Gli agenti della Locale, percependo la precarietà della situazione, avevano fatto sgomberare l’aula sotto una pioggia di insulti e imprecazioni varie. “Forse è meglio rimandare la pubblicazione delle riflessioni negative del comandante a più tardi” mi ero detto. Avevo cancellato l’annotazione, sostituendola con la classica e stereotipata: “Gli inquirenti brancolano nel buio, ancora nessuna nuova di Laura Pioggi”. Dopodiché, dopo una serie di accendi e spegni, il buio era sopraggiunto veramente, seguito qualche minuto più tardi da Efisio Bruni, ad annunciare la triste notizia. Armando Pioggi, il padre della ragazza, era il suo datore di lavoro. Un uomo sfuggevole, che intratteneva pochi rapporti con i suoi concittadini; difatti, ora che ci pensavo bene, era raro vederlo a passeggio a Capoterra e nelle frazioni del litorale. Il taglialegna, che continuava a soffiarsi il naso sulla manica della camicia, ci riferì che dalla sera della scomparsa di Laura il poveraccio si era chiuso nel suo studio, nella villa a Santa Rosa, senza più uscire e allacciare contatti con l’esterno. Era un uomo a pezzi, un padre che agonizzava nel dolore mentre le ricerche della sua piccola non davano esiti positivi. La sera prima, alle sette, non si era presentato nemmeno al consiglio comunale. Avevano partecipato sua moglie e i vari fratelli e cugini, impiegati pure loro nelle varie e redditizie imprese di proprietà di Armando, ma di lui nemmeno l’ombra.

Partimmo dal comando che si era già fatta notte e la pioggia concedeva una tregua. Le strade erano fiumi, le nuvole gonfie ma in allontanamento verso il mare. La Sulcitana quasi deserta, ad eccezione dei rari mezzi che viaggiavano in direzione di Cagliari o Pula, con a bordo gli studenti e i pendolari dell’ultima ora. Quando arrivammo a Poggio dei Pini, ai piedi di Punta Mala, il sole era definitivamente scivolato dietro i monti, e la notte s’era appropriata di ogni cosa. Bruni, visibilmente più calmo e rilassato, ci indicò il punto in cui parcheggiare. “Ero venuto a fare funghi, adesso è la stagione ideale. C’è ancora la cesta, l’ho abbandonata lì nella corsa verso la mia auto”. Indicò un mucchietto di porcini sparpagliati sul terreno, parte dei quali schiacciati dalla suola delle sue scarpe da trekking. Ci eravamo diretti fin lassù senza le sirene in azione, onde evitare che in città si cominciasse a spargere dell’inutile panico; se qualcuno ci avesse seguito fin lassù, qualche cittadino curioso, per esempio, sarebbe stata la fine, il caos totale. Lo spiazzo attorno a cui radunammo le macchine era un pantano di fango e pozzanghere fredde, delle pozze scure sopra cui si riflettevano i coni di luce delle nostre torce elettriche. “Da questa parte” ci fece strada Efisio Bruni, iniziando l’ascesa di un tratto collinare che preannunciava la foresta. Fu una fatica risalire quel pendio, reso scivoloso dall’acquazzone. Inizialmente gli alberi erano radi e rari, ma dopo aver percorso la pendenza per circa duecento metri -una fatica- cominciarono a farsi sempre più alti, fitti e oscuri, fino a quando non ci ritrovammo dentro al cuore della foresta, al centro di Punta Mala. La testa rocciosa del promontorio era visibile anche da lì, una crosta di rocce informi che si aprivano la strada in mezzo alle chiome dei pini, dei larici e dei ginepri. Era uno spettacolo della natura a cui nessuno di noi faceva mai caso, essendo Punta Mala situata a pochi passi da casa, “proprio dietro l’angolo”, come dicevano i vecchi. Impiegammo almeno un’ora buona di cammino prima che Efisio, il primo della fila, ci intimasse l’alt con un cenno della mano. La luce della sua torcia indicava una baracca di legno in mezzo ai pini, ad una ventina di metri dal punto in cui ci trovavamo noi adesso. “Là dentro” riferì, puntando la torcia contro di noi. “Dio non dovrebbe mai permettere uno scempio simile a quello. Ho già visto la ragazza, non entrerò nuovamente”.

Mi venne la pelle d’oca. Entrare o meno? La baracca era una costruzione di fortuna, una specie di rifugio improvvisato, quattro pareti assediate dal muschio e dalle felci che si arrampicavano fin sopra il tetto invaso dagli aghi secchi dei pini. Moruso si incamminò in quella direzione, e quando fu sulla soglia chiese: “Allora che fa, entra assieme a noi?”. Mannai e Tolu fremevano dalla voglia di aprire la porta: la loro morbosità, la curiosità malsana di vedere il cadavere, di assicurarsi che fosse proprio quello di Laura Pioggi, traspariva dai loro sguardi eccitati.

Fu in quel preciso momento che la vedemmo. Quasi contemporaneamente, l’ululato squarciò il silenzio della foresta, spedendo un grande e grosso barbagianni a librarsi in volo dal ramo di leccio dal quale ci osservava. Nessuno di noi, cauti com’eravamo, ci aveva badato prima. Si allontanò via nella notte, mentre il richiamo della bestia si disperdeva nelle tenebre, fino a diventare una malinconica nota riecheggiante fra la vegetazione. Alla pelle d’oca si aggiunse un brivido freddo, una spirale elettrica che mi percorse da capo a piedi. Ma che animale era mai quello!?

“Guardate la luna” bisbigliò Bruni, con gli occhi rivolti verso l’alto, oltre le chiome dei pini, in mezzo alle quali l’enorme ovale pallido si ritagliava il proprio spazio fra le nuvole. “E’ piena, comandante. Questo non l’avevo previsto”. Fece una pausa, si soffiò ancora una volta il naso sulla camicia, continuò a fissare la luna sopra di noi. “E’ meglio fare dietrofront, signori miei”.

Eravamo tutti fermi, immobili a pochi passi dalla baracca. Dall’interno della costruzione, attraverso la fessura della porticciola, si dipanava tutt’attorno un olezzo sgradevole. Sapevamo da che cosa era prodotto, ma ci astenevamo tutti dal commentare. A me era molto familiare. “Non sapevo che ci fossero i lupi in Sardegna” bisbigliò Tolu. Si morse il labbro inferiore, la morbosità era scomparsa dal suo viso, a lasciar spazio a qualcosa di molto simile e vicino alla paura. “Quello era un ululato, dico bene? L’avete sentito pure voi?”.

“Dobbiamo andare via da qui”. L’espressione sul volto di Bruni tradiva un terrore innominabile e atavico. “Dobbiamo allontanarci da qui, comandante Moruso, e molto in fretta pure”.

Il comandante non lo ascoltava. “Siete tutti impazziti? Siamo sulla scena di un delitto, e quando dentro c’è il cadavere di una ragazza”. Diede un’occhiata attraverso le assi marce della porticciola, trasalendo. “Ma quale ululato. Si sarà trattato di…”.

La luna fece capolino dalle nubi, definitivamente. Era enorme, e i suoi raggi profanavano l’oscurità adorna di soffi e sibili della foresta. A quella visione, una manifestazione che ci lasciò ammutoliti, privi di parole, tanto pareva vicina allo sperone di Punta Mala, seguì nuovamente il canto della bestia, un ululato più forte e vicino di quello precedente. Era così vicino che mi perforò i timpani.

E poi ci fu il rumore di foglie secche che si sfasciavano sotto i passi dell’animale. Un ringhio sonoro e brutale ci fece volgere sulla sinistra, dove si concentrarono i fasci luminosi delle nostre torce elettriche. La bestia era lì: una cosa dalle forme vagamente animali, ma nemmeno umane, che ci fissava accovacciata fra un cespuglio di rovi. La schiena era enorme, una scura massa di peli che fuoriuscivano dalle maglie di un tessuto lacerato e senza forme. Le zampe grosse e muscolose, pronte a flettersi e scattare sotto la forza dei tendini. Il viso conservava una remota traccia umana, che si confondeva con i ciuffi di pelo, le zanne acuminate e bavose, le orecchie a punta e gli occhi iniettati di sangue. Eppure era così chiaro! Alla luce della luna riconoscemmo la sua identità reale, primo fra tutti Efisio Bruni, che era più vicino alla bestia e tremava come una foglia esposta ai rigori dell’inverno.

“Santo cielo” balbettò Moruso, mentre faceva scivolare la mano destra, con molta cautela, alla fondina bianca ascellare. “Ma che razza di animale è mai questo?”.

“Non sapevo che ci fossero i lupi in Sardegna!” sentii ripetere Tolu, che indietreggiando urtò malamente la porta della baracca. L’uscio si aprì e Tolu cadde con una piroetta a terra. Quando si rialzò vidi che era finito addosso al cadavere della ragazza, una massa di carne massacrata e ricoperta da un sudario di foglie secche crepitanti. Inquadrai il volto dilaniato, una guancia lacerata e piegata in un sorriso sardonico, un paio di occhi fissi nel nulla della morte.

A quel punto, il ringhio della belva lacerò la notte. L’animale si scagliò in avanti e Bruni fu il primo a ritrovarsi addosso quella furia di zanne e artigli che imbevettero la terra di rosso. La sua testa rotolò ai miei piedi, gli occhi sbarrati in un’espressione di eterno e stupefatto dolore. L’urlo che cacciai attirò l’attenzione dell’animale, il lupo mannaro, su di me: la belva mi piantò i suoi occhi addosso, mentre dalle zanne ciondolava una brama di carne che colava sangue a terra, e si passò la lingua sugli artigli e sui ciuffi di pelo impiastricciati e nerastri. Era di gran lunga la cosa più orribile che avessi mai visto, e non ero sicuro di poter reggere ancora a quell’incubo.

“Armando Pioggi!” esclamai. “Lei è Armando Pioggi, il proprietario della falegnameria!”.

La bestia piegò la testa di lato, come fanno i cani. Trattenni il fiato, mentre l’animale, l’assassino mezzo uomo e mezzo animale che aveva fatto a pezzi due ragazze e la figlia, la piccola Laura Pioggi, mi osservava stranito. Emise un ringhio feroce e aprì le ganasce, ma senza avanzare.

“Armando, non lo faccia! C’è sua figlia là dentro!”. Indicai la baracca. “Laura è là dentro, lei deve tornare…”.

I suoi occhi mi fulminarono. La bestia si lanciò in avanti. La vidi chiaramente con le zampe protese verso di me, i grossi artigli pronti a farmi a fette. Mi gettai a terra di lato, finendo la mia parabola aerea sopra ciò che era rimasto di Efisio Bruni, e udii gli spari; Moruso, Mannai e Tolu avevano aperto il fuoco contro l’animale. Mi rimisi in piedi, acchiappai una torcia elettrica e mi lanciai a capofitto dentro le tenebre che mi si stagliavano davanti, nella foresta. La luna mi indicò la strada da seguire, mentre discendevo il declivio fitto di pini che conduceva allo spiazzo e alle nostre macchine. Inciampai numerose volte, ferendomi le mani e le ginocchia, ma trovai sempre la forza di tirarmi in piedi e continuare nella mia fuga. L’ultima cosa che udii chiaramente furono le urla raggelanti del comandante Moruso, di Mannai e Tolu. Poi l’ululato, prima di infilarmi in auto, avviare il motore e abbandonare Punta Mala a più di cento chilometri l’ora. La luna piena mi accompagnò durante il viaggio di ritorno a casa, sulla statale, mentre la campagna e il paesaggio inumiditi dalla pioggia si alternavano fuori dai finestrini della Passat. Quando arrivai a casa l’orologio al mio polso segnava le sette. E ticchettava. L’orologio ticchettava, ticchettava, ticchettava e…

 

“E’ fra noi? Pisu è fra noi?”.

Sento una mano che mi scuote la testa, e un brusio di voci che aleggia sopra di me. Quando apro gli occhi, la prima cosa che vedo è la punta delle mie vecchie Trainer dalle fascette dorate, e un gruppo di individui che mi osserva mentre sono disteso lungo sul pavimento. Ci sono tutti, e sono vivi: Moruso, Mannai, Tolu, il vecchio Efisio Bruni. C’è anche un’altra figura di lato, che ancora non si volta e rimane immobile, affacciata alla finestra che da su Via Cagliari. Accanto alla finestra, poco sopra la testa dell’uomo, dall’orologio a parete fa capolino una perfetta riproduzione di un esemplare di tordo. L’uccellino si esibisce in una cantilena stridula e monotona, prima di indietreggiare e rintanarsi nella casetta lignea. Ancora la voce, quella di Moruso: “Pisu, si è ripreso?”.

Indossa uno strano cappello da cowboy. Sembra appena uscito da una striscia di fumetti della Bonelli. Assomiglia vagamente a Kit Carson, anziano sbirro di provincia dall’aria rude e i modi burberi e sgraziati.

“Lei è svenuto, amico mio” dichiara, davanti al mio silenzio. “Ha battuto la testa dopo il blackout, questo se lo ricorda?”.

Me lo ricordo, ma era tutto un sogno. “Sì, devo essere scivolato e…”.

“Avanti, la aiutiamo a tirarsi in piedi”. Il vecchio falegname, la cui camicia è zuppa come se si fosse buttato a mare, mi tende la mano destra. Il palmo è duro e solcato da calli ondulati.

“Purtroppo, caro Pisu” prosegue Moruso, mentre Mannai e Tolu mi sorreggono, “le dobbiamo dare una brutta notizia. Il nostro amico qui, Efisio, ha ritrovato il cadavere della ragazza”.

“La piccola Laura?” chiedo.

Bruni annuisce. A questo punto, l’uomo alla finestra si volta. “La piccola Laura, sì. Mia figlia”.

È Armando Pioggi. Indossa la stessa giacca di sempre, quella che nell’incubo da cui mi sono appena risvegliato era lacerata e irta di peli, e la sua espressione è neutra e fredda come una lastra di ghiaccio. Tuttavia colgo qualcosa che non mi piace, qualcosa che ho già visto e conosciuto in quegli occhi fissi e luccicanti. “Dobbiamo salire a Punta Mala a riprenderla”. Fa una pausa. “Lei è dei nostri?”.

Il cuore mi balza in gola. Devo darlo a vedere, perché gli occhi di tutti i presenti, compresi quelli di Bruni e Moruso, mi si piantano addosso inquisitori.

“A dire la verità, io…”.

Poi la vedo. Vedo la luna piena incorniciata dalla finestra. Enorme, perlacea, pallida. Ma allora è me che vuole. Mi chiama, mi attira a se come il nettare la lingua delle api. Fuori la pioggia ha finito di cadere, e l’ovale è l’unico protagonista.

“Il signor Pioggi non ha tempo da perdere” chiarisce Moruso sbrigativamente. “La notizia l’ha distrutto. Sta compiendo uno sforzo immane per non lasciarsi andare alla disperazione, e salire assieme a noi fino a Punta Mala”.

Mannai, Tolu e Efisio Bruni lasciano l’ufficio. Il blackout è stato ripristinato, la centrale è operativa, e le loro sono tre figure che si allontanano velocemente nel corridoio principale dell’edificio, il comando dei carabinieri di Capoterra. “Allora, Pisu? Cos’ha deciso? Prenda carta e penna e venga assieme a noi”. Moruso è qui che mi fissa, reggendo le mie cose fra le mani: il blocchetto per gli appunti e la penna stilografica.

Armando Pioggi si volta e scruta la luna fuori dalla finestra. Lo imito e me ne sento stranamente attratto. C’è qualcosa che preme e vuole uscire. Una forza misteriosa e belluina la cui sede originaria si trova nel mio petto.

Il ricco imprenditore mi guarda. “Sarà meglio andare adesso” dice in tono languido.

Gli sorrido. La luna mi fissa. C’è una cosa che spinge nel mio petto. “Già, sarà meglio andare” ripeto, “prima che sia troppo tardi”.

 

FINE  


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