Flavia Cocco Ortu, la 91enne sopravvissuta alle bombe: “Incubo fame”

Il personaggio di Natale. Intervista alla donna sopravvissuta alle bombe del 1943, dentro i rifugi cagliaritani: “Crisi economica? Ancora adesso non butto via neanche una briciola di pane, ho l’incubo della fame di quei giorni. Vi racconto cosa significa dovere scappare dalla propria casa”


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La storia di Flavia Cocco Ortu, cagliaritana doc, classe 1922, è una di quelle che si è persa l’abitudine di raccontare. Forse perché la protagonista è una donna fuori dall’ordinario e il mondo d’oggi sembra più interessato a glorificare il banale e ad esaltare personaggi comuni con cui tutti si possono identificare.

Flavia è sopravvissuta ai bombardamenti di Cagliari del 1943, a novantuno anni, racconta oggi quei giorni, la paura, la fame. Di fronte a questa splendida novantenne con due occhi blu ancora pieni di grinta, non si può che rimanere incantati ad ascoltarla. Per ore. Una memoria vivida, lucida che racconta come se fosse ieri quei terribili giorni. A quei tempi, viveva in viale Trento, la sua famiglia era benestante, e suo padre era un ufficiale dell’esercito.

“Se non avessimo reagito, non saremmo mai sopravvissuti, – racconta Flavia – ti viene qualcosa dentro, che ti spinge ad andare avanti, penso sia stato l’istinto di sopravvivenza, noi l’abbiamo provato. Abbiamo patito la fame, non avevamo vestiti né scarpe, ma questo venne dopo, perché quando il 10 giugno 1940 l’Italia entrò in guerra, noi ancora non ce ne rendevamo conto. Non si poteva certo immaginare una guerra come quella, non avevamo capito a cosa stavamo andando in contro”.

Flavia racconta, spesso anche in modo ironico, interrompe la narrazione con degli aneddoti, seduta nella sua poltrona, accanto, il suo cane Chicco, che le tiene compagnia da 12 anni.

“Le prime avvisaglie arrivarono a fine anno, nel 1941 quando a scuola misero i cartelloni con le precauzioni da prendere in caso di bombardamento, poi si iniziò a razionare il cibo, la prima cosa- ricordo bene – fu lo zucchero. Quando scoppiò la guerra io avevo 17 anni, e quando mia madre ci diceva andiamo al cinema, io capivo che allora non c’era da mangiare, ci faceva fare qualsiasi cosa per non pensare alla fame. La mia era una famiglia benestante, avevamo qualche soldo ma quelli non si possono mangiare. La Sardegna ai tempi era isolata, non arrivava nulla, ancora oggi ho l’incubo della fame, non posso buttare neanche una briciola di pane. Mangiavamo un panino al giorno razionato tra mattina e sera, non c’era altro, si faceva la fila alle 4 del mattino nelle botteghe per trovare qualcosa.”

A quei tempi esistevano a Cagliari vari rifugi, uno di questi, nel quale la famiglia di Flavia si riparava quando suonava l’allarme, era privato, si trovava in viale Trento, ed era stato fatto costruire dal proprietario, l’architetto Dionigi Scano.

“Era un rifugio sicuro e capiente, – spiega – nel quale la famiglia Scano, i parenti, noi e altri vicini ci rifugiavamo”.

“Poi venne il 17 febbraio 1943, era pomeriggio, una splendida giornata di sole, mi trovavo in casa con mia sorella, ad un certo punto sentimmo alla radio che era caduta una bomba a Stampace, andammo a vedere cosa era successo, e là ho visto cose orribili. Ma pensavo si trattasse di un’errore, la bomba era caduta per errore, mi dicevo”.

Si ferma un attimo Flavia, come se vedesse quella scena ancora una volta, gli occhi lucidi, riprende la sua testimonianza. “Il 26 febbraio, invece, quando gli americani sganciarono la seconda bomba mi trovavo al cinema. Mia madre infatti decise quel giorno di andare a vedere il film la Maschera e il volto al super cinema accanto alla rinascente. Allora non c’erano palme in via Roma ma ficus, c’era un fitta di vegetazione, ricordo. Entrammo nella sala, c’erano anche tre militari tedeschi, a fine primo tempo però suonò la sirena, scendemmo le scale che portavano al rifugio e iniziarono i bombardamenti. Fu solo allora mi che mi resi conto che la guerra era entrata in casa nostra. Non c’era più un albero al di fuori, solo macerie, non sapevamo come rientrare a casa in via Trento, non c’erano più strade ma solo morti e macerie. Il comune era crollato, piazza del Carmine non c’era più, allora passammo da via Bayle, così riuscimmo ad arrivare nel corso Vittorio Emanuele e poi piano piano a casa. Dovevamo sfollare, andare via, come il resto dei nostri concittadini che abbandonarono la città per rifugiarsi nell’interno dell’isola. Il 28 febbraio, uscimmo con mio padre, lui doveva recuperare dei soldi per comprare la benzina, avevamo trovato un passaggio per scappare. Eravamo in via Sassari e nuovamente fu l’inferno, la cosa peggiore era vedere gente senza arti, sangue dappertutto, morte, distruzione. Anche quel giorno era una splendida giornata di febbraio. Riuscimmo, infine a lasciare Cagliari, chiuso il portone di casa non mi sono girata, non sapevo se sarei mai tornata. Poi siamo andati a Benetutti fino alla fine dei bombardamenti. Essere profugo è una delle cose peggiori che ci possano essere, per questo quando vedo quelle immagini alla tv, io capisco cosa voglia dire scappare perché a casa tua c’è la guerra”, è il monito di Flavia.

“Alla fine dei bombardamenti siamo rientrati, mi sono messa piangere, perché ce l’avevo fatta, ero sopravvissuta. La città era distrutta ma è vero quando dicono che Cagliari non volle morire, perché piano, piano tutti insieme abbiamo ricominciato”.


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