Da martedì 5 marzo l’Enrico IV di Pirandello con Carlo Cecchi tra Sassari e Cagliari

Sbarca nell’Isola – sotto le insegne del CeDAC – l “Enrico IV” di Luigi Pirandello nella versione di Carlo Cecchi, che firma adattamento e regia e interpreta il ruolo del protagonista della pièce, in cartellone martedì 5 marzo alle 21 al Teatro Comunale di Sassari e da mercoledì 6 marzo fino a domenica 10 marzo al Teatro Massimo di Cagliari


Per le ultime notizie entra nel nostro canale Whatsapp

L’enigma della follia e lo spirito d’artista tra emarginazione e libertà: si alza il sipario sull’ “Enrico IV” di Luigi Pirandello nell’interessante mise en scène firmata da uno dei grandi maestri del teatro contemporaneo, l’attore e regista Carlo Cecchi, in cartellone – in prima regionale – martedì 5 marzo alle 21 al Teatro Comunale di Sassari e da mercoledì 6 marzo fino a domenica 10 marzo  (tutti i giorni da mercoledì a sabato alle 20.30, il giovedì doppia recita con la pomeridiana alle 16.30 e la domenica alle 19) al Teatro Massimo di Cagliari per la Stagione 2018-2019 de La Grande Prosa & Teatro Circo organizzata dal CeDAC – nell’ambito del Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo in Sardegna.

Sotto i riflettori lo stesso Carlo Cecchi (che ha curato l’adattamento del testo, oltre alla regia) nel ruolo del protagonista il quale, rifugiatosi dietro la maschera della pazzia e trasformatosi in “capocomico” di una compagnia di “buffoni”, tira le fila dell’intera “rappresentazione”, in un raffinato gioco di specchi tra arte e vita. Nel cast spiccano i nomi di Angelica Ippolito (già apprezzata interprete eduardiana), Gigio Morra e Roberto Trifirò, accanto a Dario CaccuriEdoardo CoenVincenzo FerreraDavide GiordanoChiara Mancuso e Remo Stella: un affiatato ensemble per un intrigante meccanismo metateatrale, ai confini tra realtà e finzione, in cui attraverso un meraviglioso artificio si mette a nudo la verità. Le atmosfere e la temperie culturale e (e sociale) dell’ “Enrico IV”  nell’allestimento di Marche Teatro – prendono forma grazie alle evocative scenografie di Sergio Tramonti e ai costumi di Nanà Cecchi, con il disegno luci di Camilla Piccioni, nel contrasto tra la rievocazione storica e l’attualità. L’insolita e stravagante “terapia d’urto” suggerita da un insigne medico per spezzare l’incantesimo e riportare un pazzo in seno alla società, facendogli rivivere la fatale giornata dell’incidente avrà effetti imprevedibili: mentre tutti intorno a lui si affannano a recitare una parte, il protagonista rivela la sua lucidità e ottiene finalmente la sua vendetta – con un sorprendente coup de théâtre.

Figura di spicco del panorama italiano – e non solo – artista di straordinario talento, formatosi alla scuola di Eduardo De Filippo e alla luce dell’esperienza del Living Theatre, profondamente immerso nella fenda stagione degli Anni Settanta, regista e interprete eclettico capace di fondere felicemente  tradizione e innovazione, per dar vita ad un teatro rivoluzionario, in cui lo spirito della cultura popolare si intreccia alle istanze autorali,  Carlo Cecchi si confronta con uno dei capolavori del Novecento: scritto nel 1921 per il celebre attore Ruggero Ruggeri e rappresentato per la prima volta nel 1922 a Milano, l’“Enrico IV” è un’opera emblematica, che tocca temi fondamentali della poetica pirandelliana.

L’alienazione mentale è il fulcro di una vicenda surreale in cui il tentativo di infrangere il muro invisibile che separa un individuo dai suoi simili – in nome della scienza e forse della carità –  richiede ai personaggi di prestarsi ad una, sia pur nobile, farsa: una simulazione che dovrebbe costringere il paziente a prender coscienza di ciò che lo circonda, rimettendo in moto l’orologio proprio a partire da quell’istante terribile della caduta da cavallo – con conseguente commozione cerebrale – che l’avrebbe indotto a immedesimarsi nell’antico imperatore. Un’espiazione tardiva per i partecipanti alla funesta cavalcata, coinvolti in un esperimento basato sul principio dello shock, ovvero sulla convinzione che un nuovo trauma possa cancellare le conseguenze del precedente e dare inizio a un processo di guarigione “liberando” il malato dalla sua (presunta) ossessione.

Viaggio a ritroso nel tempo – per i personaggi – costretti a rivedersi come erano allora, vent’anni prima, al momento della disgrazia, quindi a riconoscersi così mutati: non a caso la figlia indossa gli abiti della madre, per necessità di verosimiglianza, e la “cura” funziona in un certo qual modo, perché la recita risveglia ricordi e desideri, riaccendendo le antiche passioni e rivalità. Quella “mascherata” duplice sulla falsariga della cavalcata in costume va perfino oltre le aspettative, fa riaffiorare colpe e segreti inconfessati e l’irruzione dell’oggi tra le mura della “reggia” in cui il protagonista aveva trovato riparo spezza il silenzio e la quiete, scatenando la catastrofe.

Il pericoloso incontro con un infelice, dettato da un sentimento di compassione, si risolve in un’inattesa catarsi, il dramma si compie e il cerchio si chiude: i semi del male gettati vent’anni prima, imprudentemente e forse per pura incoscienza e insensibilità, hanno messo radici e dato frutti. Il danno è irreparabile e la singolare spedizione architettata con l’idea di riportare l’ordine in una mente sconvolta, sortisce l’effetto uguale e contrario di vanificare quel tentativo estremo di un individuo inadatto al mondo, incapace di sopportarne le regole e specialmente l’ipocrisia, di estraniarsi, tanto da innescare una sequenza di eventi che culminerà – inesorabilmente – in tragedia.

Se il folle (per finta) non vuol rientrare nei ranghi, quella provocazione del suo rivale, che l’ha sostituito nel cuore dell’amata, e gli si presenta dinanzi, accanto alla donna mutata dagli anni e all’immagine di lei qual era, lo ferisce profondamente riscuotendolo dall’equilibrio precario di quel suo privato teatrino, e inducendolo a compiere, protetto dalla maschera di irresponsabile, un atto che la civiltà, l’educazione, perfino la coscienza gli avrebbero (e avevano) impedito. Nella versione di Carlo Cecchi scompare l’ombra della malattia – la pazzia non ha più ragion d’essere, infatti quella del protagonista, sottolinea il regista è «una decisione dettata da una sorta di vocazione teatrale: «non per nulla, il teatro, il teatro nel teatro e il teatro del teatro, sono il vero tema di questo spettacolo».


In questo articolo: