Arsia e Carbonia, tra le miniere il sangue sardo versato nelle foibe

La Sardegna della storia “nascosta” nella nuova rubrica di Marcello Polastri per Casteddu Online


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Immaginate un inferno di fuoco e polvere che invade, dal basso verso l’alto, tutti i sottolivelli di una miniera senza risparmiare gallerie orizzontali e fornelli che si trasformano in trappole mortali per i lavoratori. 
Uno scenario apocalittico eppure reale, che si verificò 75 anni fa ad Arsia, il cui nome ricorda l’omonimo corso d’acqua torrentizio che scorre nell’Istria orientale e dà il nome all’omonimo bacino carbonifero.
Quella che stiamo per raccontarvi è la maggiore tragedia mineraria d’Italia, uno dei più gravi disastri minerari del mondo, nel quale morirono 187 minatori e che ebbe ripercussioni di carattere politico, creando i presupposti per vendette di sangue mai comprese e forse del tutto incomprensibili. 
Un disastro, quello di Arsia, che per numero di vittime è superiore anche alla sciagura di Marcinelle in Belgio(tra le vittime 137 italiani).

Quando si parla di morti, si sà, non esiste misura al dolore. Così per la storia di Arsia che in tutta la sua drammaticità ci riporta al 28 febbraio 1940. 
A quei tempi l’Istria sud-orientale era territorio italiano che solo dopo la seconda guerra mondiale divenne jugoslavo e poi croato. Tra i morti di Arsia, molti minatori di origine sarda. 
Stando alle ricerche degli storici istriani, i Sardi che vi perirono furono 53. 
Secondo Mauro Pistis, che di recente ha pubblicato un foto-servizio nel mensile La Provincia del Sulcis Iglesiente, “In realtà la maggior parte dei morti di Arsia, seppure furono considerati continentali, provenivano dal bacino carbonifero di Carbonia e del Sulcis pur avendo la residenza nei pressi della miniera”. 
Ma cosa accadde in quelle circostanze? 
Lo scopriamo grazie all’encomiabile lavoro di diverse associazioni culturali che di recente, con i Comuni di Albona, di Arsia e di Trieste, hanno consentito di commemorare, il 28 Febbraio scorso,   questa sciagura mineraria che avvenne intorno alle 4.30 del mattino. 
Mancava mezz’ora alla fine del turno di lavoro e la deflagrazione di una serie di mine con boati assordanti nel quindicesimo livello della “Camera 1”, a 240 metri sottoterra, investì i minatori anche per la fuoriuscita di gas e di grisù. 
Come anticipato, quell’inferno di fuoco e di polvere invase dal basso verso l’alto tutti i sottolivelli della miniera e le gallerie orizzontali, senza risparmiare pozzi e fornelli nei quali si spensero le vite di tantissimi lavoratori. 
Crolli e allagamenti invasero gli ambienti sotterranei e parrebbe che “a provocare la morte di 187 minatori, deceduti sotto le macerie, fu una nube ad alto contenuto tossico” rivela Mauro Pistis. 
Non è tutto. Altri 146 operai rimasero stramazzati al suolo. Se le conseguenze non furono ancor più drammatiche lo si deve al fatto che molti operai si erano già avviati verso le innumerevoli uscite della miniera. Molti dei sopravvissuti soffrirono a lungo i sintomi di avvelenamento, ma anche dolori lancinanti per le ferite e le contusioni. Poi, le esalazioni respirate in quelle circostanze, resero per comprensibili scompensi di salute, la vita difficile a tanti altri minatori. 
Erano tutti sudditi del Regno d’Italia ma di nazionalità italiana, croata e slovena, poi ricoverati all’ospedale di Pola“. Dei minatori di origine sarda, in realtà, ben poco sappiamo ma la nostra regione ha comunque pagato alto, con l’amarissimo tributo di vite umane, il prezzo del lavoro, anche in tema di sicurezza, di salute e di fatica nell’ambito minerario. 
Tutto ciò avvenne nel clima imposto dal regime di allora, in un contesto di accelerazione della produzione in vista di una guerra imminente che comportò non poche preoccupazioni tra le forze di sicurezza e all’interno del partito fascista che mise in atto tutte le misure necessarie per l’ordine pubblico e per l’assistenza dei feriti. Le operazioni di recupero delle vittime, anche per le difficoltà nel ritrovare i corpi, si protrassero fino al 12 marzo del 1940, quando diversi funerali erano stati celebrati in più occasioni, “prolungando lo strazio e il lutto della collettività coinvolta, concentrata per lo più nell’Albonese, ma estesa anche ad altre località dell’Istria e perfino di altre zone d’Italia“, conclude Mauro Pistis, ribadendo che “per evitare rappresaglie e vendette alcuni tecnici minerari accusati di essere i veri responsabili del disastro, così come i soccorritori delle squadre di salvataggio ritenuti colpevoli per inadeguatezza e poca tempestività, ripararono quasi subito in Sardegna, dove lavorarono nelle miniere carbonifere del bacino di Carbonia e del Sulcis“.
Altre persone preferirono licenziarsi, interrompendo la produzione di carbone per circa un mese, causando gravi problemi all’economia dell’Italia di allora.

Le proteste dei minatori si concretizzarono nell’astensione dal lavoro per tre settimane del 40% di essi. Tanti altri lavoratori, invece, considerati colpevoli della tragedia mineraria, successivamente subirono le vendette con gli infoibamenti iniziati nel 1943. Basti pensare che solo nella Foiba di Vines (in croato: Vinež) o Foiba dei Colombi (in territorio di Arsia ed ora di Albona) nel settembre 1943 furono gettati nella voragine carsica, su 72  italiani, un ventina di dipendenti della Società Anonima Carbonifera Arsa. Faceva capo al Gruppo A.Ca.I., Azienda Carboni italiani, ed alcuni provenivano appunto da Carbonia.

Ma questa è un’altra storia che un giorno approfondiremo. Su queste colonne.

Marcello Polastri 


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