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di Giulio Neri
«Noi non pensiamo mai in modo lineare». Quando si arriva a questa frase, in Fratelli di Storia, di Marco Casula, si pensa a un enunciato che possa applicarsi all’intero Novecento, e quindi alla frammentazione di conflitti sociali, guerre e strascichi ideologici risolta – si fa per dire – nel crollo dell’Unione Sovietica.
Il Secolo breve, infatti, è l’assoluto protagonista di un romanzo che ha una dorsale di personaggi fissi, ma che si affida a sezioni integrative (i paragrafi intitolati “Stanze” e i corsivi de “Il banditore”) per completare il quadro antropologico e conferirgli, quasi, una scientificità dell’errore.
Umberto e Massimo, Stefano e Genie, Liberio e Lilith si inseguono e si perdono sulla scia di passioni e tradimenti sovraindividuali, in una sorta di frattale psico-politico dell’Italia novecentesca. Si comincia dalla caduta di Mussolini, nell’inerzia fascista della Repubblica di Salò; si prosegue con la speranza e i rivolgimenti della Contestazione, si finisce al primo manifestarsi del Reflusso, in una solitudine forse più consapevole, ma anche rassegnata.
Un decorso irregolare, eterogeneo, in cui dramma e tragedia si alternano in una pluralità di rapporti, linguaggi e tic: la retorica di un fascismo talvolta inconscio, scandito dal Voi; le gerarchie di uno Stato ridotto a pretesto di brigantaggio (il Reparto Speciale); il senso della giustizia e la dittatura del proletariato che sfumano in moda e scellerato intellettualismo, fra giovani sessantottini che desideravano cambiare il mondo, ma che non riuscivano nemmeno a comprendere sé stessi.
L’incongruenza storica che Pasolini stesso denunciava, schierandosi con i poliziotti, si ritrova in Liberio, figlio di papà approdato ai collettivi studenteschi e alla Battaglia di Valle Giulia; ma già prima in Umberto, quando la lealtà e i sentimenti più nobili sono risucchiati nella spirale dell’obbedienza militare al vecchio Regime, e il tenente diventa complice (e perciò correo) di soprusi e torture.
C’è sempre una colpa da espiare, e andando a ritroso si scopre che tutto era già scritto. Se nei fallimenti personali riverbera la sconfitta delle idee, lo scotto paradossale è una brillante carriera all’estero, l’agio “borghese” degli Anni Ottanta; o l’annegamento dopo un tardivo, disperato tentativo di recuperare i sogni persi per strada.
Anche per questo “Fratelli di Storia” somiglia a un bilancio, e a un addio che ricorre ai cimenti stilistici più rappresentativi della letteratura europea: la cura lessicale e la cadenza epica della narrazione classica, la mimesi del romanzo epistolare; gli aggettivi composti e gli slogan delle avanguardie, e il flusso di coscienza. Tutti passaggi estetici obbligati di un Occidente tramontato, ma che nessuno può dimenticare.