Nora, Isabella Ferrari in “Fedra” di Ghiannis Ritsos

Domenica 16 luglio alle 20 al Teatro Romano di Nora


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Il mito di “Fedra” – figlia di Minosse e Pasifae e sorella del Minotauro, e simbolo della follia d’amore – rivive sulla scena nell’interpretazione di Isabella Ferrari, protagonista domenica 16 luglio alle 20 al Teatro Romano di Nora (Pula) per la XXXV edizione del Festival La Notte dei Poeti organizzato dalCeDAC. Il dramma della sposa di Teseo invaghita del figliastro Ippolito – nell’intrigante e modernissima rilettura di Ghiannis Ritsos, in forma di poemetto (scritto negli anni dell’esilio e inserito nella raccolta “Quarta Dimensione”) – affiora con tutto il pathos di un eros proibito, nel contrasto tra le immagini consuete e rassicuranti della quotidianità e l’inquietudine della regina, con tutto lo struggimento delle sue interminabili notti insonni e solitarie, tormentate dal desiderio.

Un’intensa prova d’attrice per l’artista romana, icona del cinema d’autore – da “Appuntamento a Liverpool” di Marco Tullio Giordana a “Il romanzo di un giovane povero” di Ettore Scola (per cui ha vinto la Coppa Volpi a Venezia), e ancora “Saturno contro” e “Un giorno perfetto” di Ferzan Özpetek, che l’ha diretta anche nel recentissimo “Napoli velata”, fino a “Caos calmo” di Antonello Grimaldi accanto a Nanni Moretti e “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino.

«No, non posso lamentarmi di te o del mio destino. In certi momenti/ anche solo la coscienza della nostra sventura può tenerci/ al di sopra della sventura, in uno spazio elevato e profondo…» dice la “Fedra” di Ritsos, in una confessione cruda e amara che esplode in un inarrestabile flusso di coscienza, come un grido di dolore, con tutta la ferocia di una passione non corrisposta, scandalosa ma senza colpa, di fronte al peggiore dei peccati – l’indifferenza.

Il giovane principe consacrato ad Artemide, vergine dea della caccia e ammantato dei suoi ideali di purezza si sottrae alle avances della matrigna per rifugiarsi in un silenzio forse sgomento, forse turbato, ma impassibile su cui gli strali della seduzione, le provocazioni a tratti irridenti, a tratti sensuali e tenere, cadono invano finché tutto pecipita nell’inevitabile catastrofe. Ghiannis Ritsos si confronta con sensibilità contemporanea con la figura emblematica dell’eroina in nero – già descritta da Euripide in due tragedie, l’“Ippolito velato” e l’“Ippolito incoronato”, da Sofocle nella perduta “Fedra”, poi da Lucio Anneo Seneca (e da Ovidio nelle“Heroides”), da Jean Racine e nel Novecento da Gabriele D’Annunzio, Miguel de Unamuno, Marina Cvetaeva, Marguerite Yourcenar e Hugo Claus.

Una creatura fragile e appassionata, vittima e insieme carnefice, vinta dall’attrazione irresistibile e fatale (di ispirazione, o istigazione divina) per il ragazzo che abita nella sua casa, un adolescente in cui si manifestano i primi tratti di un’acerba virilità, e da lui – casto seguace di Artemide/Diana – respinta inesorabilmente nel nome della dea. Il miraggio di quella preda sfuggente e inafferrabile, unico refrigerio per il fuoco che la consuma, svanisce dinanzi all’imperturbabilità se non all’indignazione del figliastro; ma la crudeltà di quel diniego, che precipita Fedra nell’umiliazione e nella disperazione non resterà impunita, così le false accuse contro chi, reo di non amare, vien dichiarato colpevole d’aver amato “troppo” impetuosamente, faranno precipitare gli eventi.

Finale efferato per una tragedia – antica e moderna – universale: la rivelazione di Fedra a Ippolito, quel suo mettersi a nudo mostrandogli lo strazio della sua anima, confessandogli il suo turbamento, è già un gesto estremo, quasi sconsiderato, senza ritorno, e quindi presagio della catastrofe, che si avvera in forma di perfida e sottile vendetta con cui la donna offesa e esacerbata colpisce, sporcandolo d’ignominia, quel bell’indifferente. Il giovane è muto testimone di quell’incassante e incalzante fiume di parole, di quell’aspro e ormai disincantato delirio amoroso, in cui lei idealmente ripercorre i momenti significativi del nascere e evolversi della sua ossessione, fino all’esplosione incontenibile di quel sentimento indicibile, quella pulsione segreta.

Fedra” incarna la forza selvaggia e indomabile dell’eros, una potenza arcaica e primigenia che trascende e infrange regole e tabù culturali e sociali, ma anche – già nella visione euripidea – il conflitto tra la sensualità e la spiritualità, il fuoco della passione e il rigore della ragione: scelte estreme, opposte ma comunque in contrasto con la natura umana. Sintesi folgorante del dramma di una donna davanti alla vertigine del vuoto d’amore, il poema di Ghiannis Ritsos restituisce tutta la complessità della figura della protagonista, nell’alternarsi tra quell’indulgere nei ricordi, per evocare per sfiorare idealmente con le dita, seguendone i contorni, accarezzandolo o cullandolo, fino a possederlo, il corpo dell’amato, e la durezza figlia dell’insofferenza per quel diniego insensato, ai suoi occhi, quell’ostinazione cieca e pavida, divenuta sorgente del suo dolore.

Superata la soglia del pudore, mostratasi in tutta la sua debolezza, la regina mette in atto contro il suo involontario aguzzino la vendetta premeditata e assaporata, quel veleno distillato nelle parole: l’ultimo atto non offre nessuna speranza di catarsi, tutti sono o diventano colpevoli, eros trascina oltre il baratro Fedra e Ippolito, e perfino l’ignaro Teseo, in un dramma senza redenzione.

Il mistero di Fedra, il suo fascino oscuro, da femme fatale, conduce in un altrove, sui sentieri della follia – mentre il resto è silenzio – per trasfigurarsi in poesia.


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