“Nessuno è intoccabile”: la vendetta disperata (e autodistruttiva) dei balentes

Esce con l’editore emiliano Butterfly il nuovo romanzo di Thomas Melis, spaccato paradigmatico della criminalità sarda. Dai balentes taciturni ai boss sbruffoni, passando per una politica senza scrupoli e per una loggia massonica di “illuminati”. Recensione di Giulio Neri


Per le ultime notizie entra nel nostro canale Whatsapp

Di Giulio Neri

L’Isola descritta da Thomas Melis è una Sardegna cifrata, e riconoscerne i luoghi, da Iliseri a Porto Sant’Andrea, fino a Caralis, è un gioco ulteriore riservato a noi lettori. C’è una continua familiarità nella narrazione, che tocca argomenti classici: la disamistade dell’entroterra, e la faida, ma anche l’incompatibilità dei codici morali fra bidda e città, soprattutto quando la contesa si sposta al di fuori della Legge. Là dove lo Stato si esaurisce o si svuota, a fronteggiarsi sono i balentes in velluto e cosinzos, e i narcotrafficanti dei palazzoni di Santa Lianora (Sant’Elia) con luogotenenti gaggi e imberbi spacciatori. Se la grammatica di potere e collusione, da nord a sud, sembra restare immutata; e se l’orizzonte degli affari è una mera variabile, come lo slang dei capi, la grande differenza tra balentes e criminali standard è sempre filosofica, e concerne il senso della morte, sfidata a ogni piè sospinto. Questo, senz’altro, è uno degli aspetti più interessanti di “Nessuno è intoccabile”.

Tramontata, o quasi, la logica dell’abigeato e dei sequestri, è il traffico di droga a produrre ricchezza e a modificare i rapporti di forza, persino nell’ambito della disamistade fra i Corrasi e i Degortes, che per decenni hanno covato i loro reciproci rancori e solo adesso realizzano di essere giunti a una resa dei conti. I primi, con il patriarca Tziu Efisiu e il rampollo Vattori, sono più ricchi e vincenti, e hanno saputo riciclarsi nell’edilizia appoggiando un assessore regionale compiacente; i secondi, ai margini, sono logorati da una ferocia trattenuta, e critici rispetto a Tziu Antine, capostipite sospettato d’avere sambene durche, sangue dolce, poco incline cioè a sfogare in pieno la furia vendicatrice della famiglia (in particolare, quella di suo nipote Vissente e di Enrique Velasco Ramos, “il Castigliano”).

Questo elemento di controllo, di attenta riflessione sulle conseguenze, è essenziale non solo per il romanzo, ma anche per gli equilibri di un territorio già promesso al bagno di sangue. L’attesa, di fatto, rimanda il destino. Ma quando i Degortes fanno il colpo della vita, prima assaltando la base militare di Capo Alto, e poi un portavalori con a bordo quattro milioni di euro, i tempi della vendetta sono maturi e indifferibili.

La posta in gioco è esorbitante, e la guerra deflagra attirando nuovi alleati fra politica e massoneria, tra banditi influenti e boss mafiosi che operano da Cammino Santo, il carcere di Caralis; e non mancano imprenditori della società civile indotti a vendersi.

Melis ha il merito di svelare l’ingranaggio nei minimi dettagli, dai colloqui privati dei notabili alle ipotesi avanzate in una sperduta casermetta della justizia, con un maresciallo che i sardi ha imparato a capirli fin troppo. Così, mentre ai piani alti si sviluppa il grandioso progetto per la nascita di Baia Ìnnia, e si valutano i correttivi amministrativi da applicare, in cantina sibilano pallettoni e scattano coltelli – al solo scopo di farla pagare all’eterno nemico.

Se c’è un’evoluzione criminale, kultur & civilization della mala secondo cui bisogna agire per il meglio e, talvolta, «aggiungere un posto a tavola», la balentia segna la propria fiera arretratezza: è l’odio a giustificarla, non l’avidità né l’opportunismo. In questo sentimento radicale, e arcaico, c’è un fascino letterario (di autodistruzione, in primis) che il romanzo di Thomas Melis esercita con i silenzi dei personaggi, con i proverbi in limba, e con gli sguardi terribili di uomini e donne che non dimenticano nulla, e che riescono a odiarsi fino all’ultimo respiro.