Mollare tutto e partire incontro al Prossimo: l’esempio di Paola Carta

Più di tanti slanci retorici e chiacchiere umanitarie, l’esperienza riportata in “Zoe e le altre” testimonia altruismo e profonda comprensione. Dagli anziani di un ospizio bolognese al Brasile; dall’Angola sprofondata in una guerra quarantennale alla Colombia dei desplazados. Di Giulio Neri


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di Giulio Neri

Paola Carta è nata a Gesico, ma ha portato la Sardegna in giro per il mondo. Prima a Bologna, dove s’è laureata e ha prestato assistenza agli anziani di una casa di cura; poi in Sud America (Brasile, Colombia) e in Africa (Angola), andando incontro – in qualità di operatrice – alla miseria più disperata.

Pubblicato da La Città degli Dei, “Zoe e le altre” è, soprattutto, una raccolta dell’esperienza maturata all’estero, tra ONG e progetti di recupero internazionali. Nei racconti, la solidarietà e il coraggio si imbattono in realtà lacunose, burocratizzate, spesso condizionate da finanziamenti e iniziative umanitarie di facciata: uno scenario controverso in cui i veri protagonisti risultano essere i volontari con il loro altruismo sincero, e l’infrator che dà in escandescenze per una lattina di Coca Cola, la prostituta scalmanata, i bambini che si drogano con vapori di benzina e colla pur di affrontare i pericoli della notte di Rio de Janeiro o di Luanda. Ognuno di questi casi è riportato da Paola Carta con linguaggio diretto, immediato, senza omissioni né compiacimenti sentimentali: c’è paura, pietà, rabbia; e perdono. A guidare l’intervento è, sempre, il tentativo di comprendere e di fraternizzare con i più deboli.

Il terribile Marcinho, che getta nello scompiglio l’intero centro diurno del Maracanà, è soltanto una vittima, galoppino o sentinella di caporioni che, appena qualcosa va storto, non esitano a pestarlo. Si scopre una violenza di ritorno, difensiva, la stessa di cui si apprende nei manuali di psicologia, ma che in questi luoghi – ancora di più – ha un volto giovanissimo e martoriato. C’è un villaggio di orfani all’imboccatura di una fogna, alloggi costruiti a scampoli di lenzuolo, con teli e buste della spazzatura: sono accoglienti e gioiosi per la tia bianca giunta in visita. Questo impegno fattivo, concreto, pieno di riguardo e curiosità, è un’autentica festa per i ragazzini di Luanda abbandonati a sé stessi. La loro fame non si limita a rovistare nell’immondizia in cerca di cibo, o a rischiare la vita, come a Malanje, sotto la pioggia di derrate alimentari sganciata dagli aerei cargo dell’ONU; è un desiderio fisico di attenzioni, di parole e ascolto, di «coccole» mai ricevute.

Zoe e le altre, cioè i vari alter ego assunti da Paola Carta nei suoi racconti, offrono proprio questo: un soccorso del gesto, del contatto, del dialogo aperto al di là dei pregiudizi e della retorica occidentali. Si osserva così un Terzo Mondo di storie individuali drammatiche, di incontri e scambio reciproco, dove le formule standard di salvataggio sono una specie di insulto ulteriore, dall’alto al basso, mentre l’unico modo di agire, il più sensato, il più giusto, è metterci il corpo, alla pari, e sporcarsi.

In questo processo di simmetria emotiva spicca la donna – Zoe, Alice, Irene, Zaira, Marina – volontarie, operatrici infratoras, per così dire, dei precetti riabilitativi standard, ma anche di un femminismo ormai svuotato, che si trascina per inerzia di risentimento. Nella sala do lazer, invece, si disegna, si canta e si balla in libertà. Tutto, i ricordi dell’infanzia e quelli di uno stupro, passano attraverso il corpo e la sua memoria. Il riscatto è un denudamento complice, da catarsi tribale: una tribù di femmine che non odiano il maschio, e che proseguono a farsi belle con l’henné al ritmo di funk carioca.

E perfino in una dimensione così intima, Paola Carta non esita a esporsi ricordando i momenti di sconforto e la solitudine lontano da casa; perché la solidarietà, la più autentica, non è una prerogativa da robot: c’è sempre un’umanità, dietro, che talvolta dimentica i propri bisogni, ma che nella frenetica smania di offrire amore non può che sperare di ottenerne – prima o poi – un po’ anche per sé.