Lo scrittore sardo Marco Conti racconta com’è nato il suo ultimo libro

“Sul confine”: una raccolta di racconti difficili di solitudine, sesso e disperazione 


Per le ultime notizie entra nel nostro canale Whatsapp

di Mariazzurra Lai

Dieci storie non incasellabili, delle quali chiediamo conto, come di costume all’autore, Marco Conti.

«Io trovo straordinaria la tua capacità di svariare da uno stile di scrittura all’altro. Riesci a passare indifferentemente da forme auliche al più “basso” gergo da strada, che sia giovanile o da bar, senza peccare di mancato realismo o scelta sbagliata della forma ancor prima che del gergo. Mi piacerebbe sapere da cosa deriva questa tua capacità. Credo derivi dalla voglia di mettermi in gioco e di non fossilizzarmi su un unico genere o su uno stesso registro di scrittura. Dal bisogno di andare sempre alla ricerca di nuove motivazioni. Sono una persona che si annoia facilmente, e che ama evitare il rischio di appiattirsi provando esperienze nuove e coltivando interessi diversi. Il riflesso letterario di questo mia tendenza è la voglia di dare voce a personaggi tra loro dissimili, che si portano dietro un vissuto e un bagaglio derivanti dalle loro estrazioni sociali, dalle loro emozioni e storie di vita».

Marco, tu scrivi. Come può essere giustificata la condizione di vivere in un paese dove un autore si ritiene in diritto di affermare: “Io non leggo, io scrivo”?

«Non credo che possa né tantomeno debba essere giustificata. Non può esistere la scrittura senza la lettura. Questo perché scrittura vuol dire comunicazione e, quindi, confronto. Sentirsi scrittori e non lettori significa alimentare una campana di vetro nella quale non può esserci confronto alcuno. Significa avere la pretesa di ritenersi una voce insindacabile e indiscutibile. Delirio di onnipotenza. In un paese dove tanti si sentono scrittori e troppo pochi accaniti lettori, beh, peggio per loro. Io scrivo, ma non mi sento uno scrittore. Preferisco pensarmi come un amante della lettura e dei libri, come un amante della scrittura e delle storie. E ritengo che la lettura sia lo strumento fondamentale per migliorare la propria penna e la propria capacità di scrivere. A mio parere non si può crescere come autori senza il confronto con quelli più bravi di sé».

Rispetto alle precedenti pubblicazioni, l’ultima “Sul confine” ha ricevuto maggiori critiche dal tuo bacino di lettori per l’utilizzo di un linguaggio crudo, meno formale e più atto a sottolineare contesti, situazioni o meglio realtà non celate attraverso la cosiddetta: “parolaccia”. Secondo te questa reazione nasce dall’imbarazzo di rileggerti sotto un altro profilo più crudo oppure perché?

«Devo premettere che alle critiche iniziali, dettate dallo stupore per questo cambiamento drastico di registro, sono seguiti dei pareri lusinghieri che mi hanno invogliato e motivato a far conoscere a quanti più lettori questo mio viaggio oltre il confine. Senz’altro gli argomenti trattati, i personaggi tracciati e il linguaggio utilizzato presuppongono una lettura che vada oltre l’ipocrisia e i falsi moralismi. Il lettore deve lasciarsi prendere per mano e farsi accompagnare in questo viaggio, senza condizionamenti, in modo da potersi interrogare sul proprio personale confine. Sono consapevole che qualche personaggio e qualche storia possano risultare sgradevoli, ma la mia non vuole essere una provocazione fine a se stessa, ma un invito alla riflessione. Infatti questa sgradevolezza è la metafora di quel meccanismo di espulsione e repulsione che nella vita di tutti i giorni tendiamo a mettere in atto nei confronti di certe realtà. O di certe persone».

Perché questa raccolta? Cosa ti ha spinto a voler partorire questi racconti? La consideri una creazione riuscita?

«Sul confine nasce dalla voglia di dare voce ai quei personaggi che vivono ai margini della nostra società. Quella odierna.  A quei personaggi che urlano silenziosamente e non vengono sentiti da nessuno. Che vengono criticati, o talvolta ignorati. Sul confine nasce dalla voglia di prendere a schiaffi l’ipocrisia e qualsiasi forma di falso buonismo. Se dovessi scegliere un sentimento alla base di queste dieci storie sarebbe senza dubbio la rabbia. Si, la considero una creazione in grado di far riflettere e di trasmettere inquietudine. Un progetto sfrontato, coraggioso e originale. E per questo riuscito. Almeno per me».

Dove hai trovato l’ispirazione per qualcosa di così sconfinato e sconfinante? Quanto ha inciso la tua professione nell’affrontare gli elaborati? Cosa rappresenta per te “Sul Confine”?

«La mia professione è stata determinante nel senso che mi ha dato la possibilità di conoscere e toccare con mano determinate realtà. E di toccarle con mano giorno dopo giorno, affrontandole senza giudicarle. L’ispirazione è nata dalla vita di tutti i giorni, da esperienze professionali e personali. Il libro rappresenta proprio la voglia di lasciare da parte il giudizio. I personaggi di “Sul confine” si raccontano senza nascondersi dietro un dito, senza vergogna. Chiedono solo di essere ascoltati e rispettati. E sono stufi di essere giudicati».

Trovo “Sul confine” sia un contenitore di informazioni a sfondo sociologico e che riporti attraverso ogni storia quanto avvenga nella società contemporanea ovvero stralci di vita quotidiana di una moltitudine di persone che per un motivo o per un altro si trovano a vivere proprio sul margine, su quello che tu hai chiamato “confine” e che spesso è solo l’inizio di un percorso verso la deriva. Pensi, questi aspetti siano arrivati ai lettori durante la lettura o ritieni che spesso ci si soffermi più sulla forma piuttosto che sui contenuti semplicemente anche per comodità di non voler ammettere l’esistenza di certe realtà o verità? Insomma, un po’ come dire: “Sento ma non ascolto”?

«Condivido in pieno questa chiave di lettura. Questo libro accende i riflettori su realtà che nella vita di tutti i giorni è più facile ignorare. O far finta di ignorare. E forse porta ciascun lettore a mettersi in discussione, a mettere da parte la comodità di non voler ammettere, vedere o sentire. E non tutti hanno la voglia, il coraggio e la maturità di sporcarsi le mani con la sofferenza altrui».

Nelle dieci storie, qual è il comune denominatore o filo conduttore?

«Il filo conduttore delle storie è la solitudine. Sono gli espedienti che i personaggi mettono in atto per esorcizzare questo stato d’animo. E’ la consapevolezza di essersi spinti un passo oltre il confine, e di non sapere come tornare indietro».

Se dovessi dare un voto alla tua ultima creazione, in una scala da 1 a 10, quale valore numerico le abbineresti? E perché?

«Non saprei, non mi sento in grado di attribuire un valore numerico a Sul confine. Posso dire che lo ritengo il più maturo tra i tre lavori, il più coraggioso e anche quello meglio strutturato. E che quindi sono soddisfatto di questo progetto, in quanto lo considero un passo avanti  nel mio personale percorso di scrittura».

La riuscita è esattamente quella che speravi o vorresti rivisitarlo nei contenuti?

«Riscriverei esattamente ogni parola, virgola o parolaccia. Non cambierei nulla».

Quanto ti rappresenta “Sul confine”?

«Mi rappresenta tantissimo. Molto più di quanto si potrebbe immaginare dopo una prima lettura. Ma per capire come e quanto mi rappresenta bisogna conoscermi nel profondo del cuore».

Quale fra i personaggi che hai scelto protagonisti delle tue dieci storie ti assomiglia maggiormente e quale fra questi stessi personaggi ha per te un’importanza, diciamo affettiva?

«Sono legato a tutti i personaggi del libro. Ciascuno rappresenta una parte di me e mi sento legato ad ogni storia e ad ogni personaggio. Veronica rappresenta l’altra faccia della medaglia di quella speranza e rinascita che avevo tracciato in “Dalle ceneri della fenice”,  Samm è il mio Caronte, il mio traghettatore in questo strano viaggio oltre il confine, Marco Aurelio rappresenta la malinconia, Ulisse la rassegnazione… ognuno ha la sua funzione e porta con sé un pezzetto della mia anima». 


In questo articolo: