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Di Paolo Piu
“Il Re è morto” intitolarono i giornali all’indomani della scomparsa di Elvis Presley
avvenuta il 16 agosto del 1977, ma non aggiunsero “viva il re” perché nessuno, né allora né oggi,
riuscì ad eguagliare la sua fama.
Quando il suo primo disco That’s Alright Mama fu trasmesso da una radio locale di
Memphis nel 1954, il pubblico pensò che si trattasse di un cantante nero, visto lo stile della sua
musica e la timbrica della sua voce, e grande fu lo stupore quando si venne a sapere che si trattava
di un bianco che aveva abbattuto la barriera socio-culturale allora esistente negli Stati Uniti tra i due
gruppi etnici. Ma non fu tanto per queste caratteristiche che il suo manager decise di fare di lui una
star, bensì per gli episodi di fanatismo che il cantante riusciva a scatenare tra il pubblico,
specialmente quello femminile, durante le sue apparizioni. Ben presto fu definito in vari modi: il Re
del rock’n’roll, o “Elvis the Pelvis” per quel suo ondeggiare sulle anche al ritmo trascinante di quel
nuovo stile musicale che aveva una forza strepitosa e una carica travolgente, di cui egli fu il
massimo esponente.
Nel 1956 arrivò il successo internazionale grazie a brani quali Blue Suede Shoes, Hound
Dog, Long Tall Sally, che lo consacrarono alla fama mondiale e fecero di lui un’icona dell’America
contemporanea. Questo periodo aureo durò ininterrottamente fino al 1958, quando venne chiamato
alle armi e mandato a prestare servizio in Germania per due anni. Al suo ritorno il panorama
musicale era cambiato: l’epoca d’oro del rock’n’roll si era trasformata, i gusti del pubblico si erano
un po’ ammorbiditi e il mondo si stava preparando ad essere invaso da un altro fenomeno musicale
di pari grandezza: l’era dei Beatles.
Dopo un periodo in cui si dedicò soprattutto al cinema in cui interpretò con alterna fortuna
numerosi film musicali, apprezzati più per le sue canzoni che per la recitazione, nel ’68 ritornò con
lo special tv dal titolo “Elvis is Back”, che decretò la rinascita del cantante e lo vide di nuovo
protagonista dei palcoscenici su cui si esibì talvolta con una frequenza di un concerto al giorno e
che rilevavano il tutto esaurito ad ogni sua apparizione. L’apice fu raggiunto nel ’73, col famoso
“Aloha from Hawaii”, primo concerto nella storia del rock ad essere trasmesso via satellite. Dopo
breve tempo cominciò il declino. Visibilmente appesantito, Elvis aveva perso gran parte del suo
smalto e della grinta che lo avevano caratterizzato al tempo degli esordi, ma le canzoni di quel
periodo non accusarono il colpo del graduale decadimento fisico, restando sempre belle e amate
dal pubblico.
Poi giunse improvvisa la morte all’età di 42 anni, a causa di un mix letale di barbiturici, in
un pomeriggio d’agosto a Graceland, la sua villa di Memphis nel Tennessee. La notizia lasciò
sgomenti milioni di fan in tutto il mondo: era possibile che una leggenda vivente potesse morire?
Come conseguenza fu immediato il suo ingresso nel mito: Elvis era destinato a vivere per molti
decenni ancora come un’icona moderna della cultura americana, depurata dall’ultimo periodo di
decadimento e cristallizzata nella sua forma migliore, dagli esordi prorompenti del periodo d’oro
negli anni ’50, fino agli anni ’70 col suo caratteristico costume di scena, copiato da migliaia di
imitatori che in varie parti del mondo cercavano di far rivivere il mito e la figura di Elvis, copiando
le movenze e interpretando le sue innumerevoli canzoni immortali, contribuendo così a dar vita ad
un mito inossidabile e tuttora insuperato. Ancora oggi Graceland è una meta di pellegrinaggio da
parte di migliaia di fan provenienti da tutte le parti del mondo, che tengono vivo il mito e il ricordo
di Elvis, oggi come allora indiscusso re del rock’n’roll.