All’ombra dei pioppi, il nuovo racconto noir di Lorenzo Scano

La storia della domenica


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                                                       ALL’OMBRA DEI PIOPPI

 

“Era venerdì sera, e si era fatta più o meno quell’ora lì… Quella in cui solitamente, dopo una faticosa e prostrante giornata di lavoro nei campi, mi siedo sul porticato con una bella bottiglia di birra ghiacciata fra le mani. È il momento della giornata che apprezzo maggiormente, quello che mi fa scaricare lo stress e la tensione accumulata marrando quell’orticello lì… Quello sul retro, intendo, penso non lo abbiate ancora visto. Comunque sta lì, sul retro. L’Ichnusa spumante è un rituale consolidato, una roba che faccio da… bé, tipo dieci anni ormai. Me ne sto fermo a contemplare il tramonto, ed è sorprendente vedere quali incredibili giochi di luce si vengano a creare quando quello si ritira coscienziosamente dietro le montagne…”.

Il vecchio -probabilmente manco se n’era accorto- discorreva in quel modo, come se si fosse preparato il discorsetto prima del nostro arrivo, da cinque minuti buoni, senza però rispondere alle nostre domande. Parlava come le pagine di un libro stampato: aveva la lingua sciolta, e il suo vocabolario -nonostante non avesse che la terza media- era aulico e ricercato, e tradiva un vago senso di scherno nei nostri confronti. Quasi che lo facesse apposta, quasi che ci stesse prendendo in giro. Probabilmente leggeva molto, non solo le notizie di cronaca del quotidiano locale, e sui tramonti gli davo pure ragione. A Capoterra, a seconda della stagione, se ne vedono spesso di molto belli, e la tentazione è quella di pitturarli o immortalarli con una bella macchina fotografica.

La moglie del vecchietto, una vacca vestita di satin, si comportava come se non ci fossimo nemmeno; incurante della bianca e blu parcheggiata oltre lo steccato, innaffiava una bella siepe di rose rosse in fiore, rendendo partecipe della rinfrescata anche il parabrezza della nostra auto. Sul fianco del fuoristrada, a chiare lettere, campeggiava la scritta “Polizia Locale”, seguita dallo stemma del comune di Capoterra, cittadina presso la quale ho prestato servizio per oltre vent’anni, prima che accadessero gli eventi di cui vi sto per informare.

“D’accordo, signor Palau; era venerdì sera -questo già ce l’aveva detto- e lei sorseggiava una birra proprio qui sul pianerottolo” lo spronai a venire al sodo, poiché dalla radio proveniva la voce gracchiante della centralinista e dovevamo sbrigarci a tornare in centrale. Sandra Ghironi, la mia collega di pattuglia quel pomeriggio, aveva ormai perso la pazienza da un pezzo; braccia conserte lungo i fianchi, sguardo serioso e torvo, si dondolava sulle punte degli stivali, facendo scricchiolare le assi sconnesse del pavimento, e lanciava occhiatacce a Palau -quel vecchio le stava proprio antipatico. In realtà il nostro turno lavorativo si era concluso da un pezzo, faceva caldo -un caldo pazzesco; qualche ora prima il termometro della jeep aveva sfiorito i quaranta- e ciò che desideravamo di più in quel momento era una bibita ghiacciata, un’orzata magari, che ci desse una rinfrescata prima di rincasare e ficcarci sotto la doccia, esasperati da una afosa giornataccia d’agosto che sembrava non finire mai. L’estate, come ogni cosa, aveva i suoi pregi e i suoi difetti: una delle cose che sopportavo a malavoglia era la divisa, i cui pantaloni mi si appiccicavano sulle cosce e sui polpacci.

Il problema era quella chiamata: “Ho qualcosa da raccontare riguardo alla rapina. Mandate due agenti a casa mia” aveva detto Palau alla centralinista, tre quarti d’ora prima circa. “Località Sa Taccula, la mia è l’unica abitazione nei paraggi”. I paraggi: sentieri di terra secca, vegetazione bassa e inconsistente che bruciava sotto il sole, alberi gobbi e rachitici che si stagliavano contro il cielo in cui combattevano mille e più colori.

Naturalmente, in quella zona di campagna infernale, circondata dai pioppeti e battuta dal sole cocente, ci avevano spedito Sandra e il sottoscritto, di rientro da Frutti d’Oro II, dove avevamo dovuto sedare una rissa scoppiata nelle tribune durante l’abitudinaria partita di calcio a cinque fra “Capoterra Centro” e “Lottizzazioni unite”. Il vecchio ci aveva accolto in ciabatte da spiaggia, bermuda e canottiera sudata che lasciava intravedere i peli e le piaghe della pelle sotto le ascelle.

“C’era il tramonto” si intromise Sandra, sbuffando, “tanti bei colori, il tepore sul viso. Tutto molto bello, sono d’accordo con lei, fa molto romanzo country; ma lei, di preciso, che cosa ha visto? Forse che non ha visto niente, e ci sta solo facendo perdere tempo?”. Sandra si esibì in una delle sue espressioni che ne tradivano la pazienza assai scarna.

Il vecchio accartocciò la lattina di birra e tentò di fare canestro mirando al contenitore della raccolta differenziata sul bordo del pianerottolo; la lattina mancò il bersaglio, ma nella sua parabola aerea colpì comunque il bidone squadrato, che rovinò sulle scale, spargendo sull’erba tutto il suo contenuto marcio e maleodorante. Il contenitore era quello dell’umido, le mosche gli si precipitarono sopra all’istante.

“Maiale!” urlò la moglie, affrettandosi a chiudere l’acqua e abbandonare la pompa a sgocciolare sullo steccato. Fu subito sul pianerottolo, l’indice puntato severamente su di me e Sandra, sempre più spazientita. “Tanto poi chi pulisce sono io, vero? E voi, che cosa ci fate ancora qui? Abbiamo la cena sul fuoco, e ci piombate in casa proprio mentre stiamo per sederci a tavola a mangiare. Siete tutti uguali, voi carabinieri. Efisio, buttali fuori di casa!”.

Non mi sprecai nemmeno a far notare alla bisbetica che noi eravamo della Locale, e non dei carabinieri, ed osservai la scena in silenzio. Il vecchio la sospinse di forza dentro casa e si richiuse frettolosamente la porta munita di zanzariera alle spalle. La vacca continuò ad insultarlo per uno o due minuti buoni, prima di ciondolare in cucina e sistemarsi ai fornelli.

“Due uomini a bordo di un furgone” ci informò il vecchio. “Impossibile stabilirne il colore, ormai non si vedeva quasi più niente. Li ho visti scendere e scaricare qualcosa dal cofano. Ecco, si trovavano lì”. Servendosi di un vecchio manico di scopa rotto, indicò un punto preciso della foresta, una porzione vasta e uniforme del pioppeto dove non arrivava la luce del sole e le tenebre governavano perenni e indisturbate.

“L’ha trovata una cosa abbastanza insolita? Il fatto che qualcuno si aggirasse laggiù a quell’ora del pomeriggio, intendo” gli domandò Sandra.

“Era ormai sera” puntualizzò il vecchio. “Altroché pomeriggio, niente più luce, come vi ho detto. E, oltre a qualche drogato e le coppiette, chi mai potrebbe avere interesse a recarsi all’ombra dei pioppi al tramonto?”.

Sentimmo che dalla radio la voce della centralinista continuava a gracchiare qualcosa. Sandra sbuffò e mi colpì lo stinco con la punta dello stivale rinforzato. I suoi nervi erano ormai giunti al limite, probabilmente non credeva ad una sola parola del vecchio.

Faceva ancora molto caldo, nonostante fossero le otto passate da un pezzo, e sciami di zanzare grosse come libellule svolazzavano fastidiose sopra le nostre teste; sentivo la camicia incollarsi sempre più alla mia schiena sudata, quasi da diventarne un tutt’uno grondante. A dirla tutta, anche io non vedevo l’ora di andarmene via da lì e lasciare Palau alla contemplazione del suo tramonto solitario. Eravamo fermi, in piedi su quel dannato pianerottolo da quasi due ore, e la maggior parte di queste il vecchio le aveva passate a parlarci di quanto dura fosse la vita nei campi.

“Perché ha voluto chiamare noi e non i carabinieri?” gli domandai. “Le rapine sono competenza loro, noi ci occupiamo di liti famigliari e infrazioni al codice della strada. Dovrebbe saperlo bene, dato che l’abbiamo fermata più volte, ubriaco fradicio”.

Palau si strinse nelle spalle. “Sciocchezze, l’ultima volta ho solo alzato un po’ il gomito, d’accordo… Comunque Russo e i suoi uomini mi stanno antipatici. Quell’uomo è un bruto, non ha mai un attimo di pazienza. Non mi avrebbe mai preso sul serio”.

“E chi le dice che invece noi della Locale sì?” si intromise Sandra, con un sorriso sottile che le deformava le labbra, quasi a voler deridere il vecchio.

Palau tornò a sedersi, stappò un’altra lattina di birra dalla quale bevve lunghe sorsate, il pomo d’Adamo che faceva su e giù, e, senza badare troppo alle buone maniere, ruttò selvaggiamente. Un po’ di spuma gli colò lungo il collo, lui ripulì la canottiera con una mano e ruttò nuovamente. “Fate come credete” mugugnò. “Io vi ho solo riferito ciò che ho visto”.

Tornammo alla jeep. Tanto faceva caldo che l’acqua già si era asciugata sul parabrezza. La pompa, appoggiata allo steccato, gocciolava ancora un po’ d’acqua per terra; mi sporsi oltre il finestrino, l’acchiappai e ne bevvi un pochino, giusto per rinfrescarmi e alleviare la calura opprimente.

“Odio l’estate” sentenziò Sandra, attaccandosi al condizionatore. “Odio farmi trascinare a malavoglia in una zona di campagna deserta, e odio stare a sentire le idiozie di un vecchio ubriacone come Palau”. Che Palau fosse vecchio, puzzolente e ubriacone, nessuno lo negava; ma che il suo racconto fosse fasullo, a quello non ci volevo credere.

Avviai il motore, ed informai la centralinista che saremo stati di rientro entro le otto e trenta. Gli uffici della Polizia Locale si trovavano in Via Cagliari, al piano terra del palazzo seicentesco che ospitava il Comune e pure le poste; ci sarebbero voluti una ventina di minuti in macchina da lì.

“Cara la mia collega, se ci siamo spinti fin quaggiù un motivo c’era realmente. Al telefono Palau sembrava agitato. Non ci potevamo far scappare delle notizie riguardo alla rapina”.

Una decina di giorni prima, tre uomini incappucciati avevano fatto irruzione in un ufficio postale nel quartiere litorale di Cooperativa Mille, portandosi via, oltre che gli incassi della giornata, anche i portafogli dei clienti, del direttore e degli impiegati terrorizzati agli sportelli. La guardia giurata, che piantonava l’ingresso, si era beccata una pallottola dritta, dritta dentro al cuore: stramazzato a terra, l’uomo era morto in ospedale, a nulla erano valsi i soccorsi precipitatisi sul posto. Dopo aver fatto perdere le loro tracce, i tre incappucciati si erano divisi a bordo di una Fiesta e di una Panda ritrovate successivamente carbonizzate nei pressi di Macchiareddu, in un piazzale di terra e polvere che si stagliava ai piedi di una grossa costruzione abbandonata.

“Ma dove stai andando?” esclamò Sandra quando, anziché dirigermi verso la strada statale e poi al Comune -dove si trovavano gli uffici della Locale-, immisi la jeep nel sentiero sterrato che si inoltrava nella foresta. Costeggiamo vecchie recinzioni di filo spinato assediate dai rovi e dai fichi d’india e staccionate marce e cadenti, che avevano conosciuto di certo tempi migliori di quelli; oltre i muretti a secco, le famose chiudende sarde, si stendevano campi desolati e terreni demaniali assediati dalle zecche.

“Allora?”. Sandra mi afferrò per un braccio, sentii le unghie intaccare la carne. Ne fui un po’ turbato, ma che cosa le prendeva? Sembrava davvero contraria ad inoltrarsi là in mezzo e il suo viso, solitamente ornato da uno smagliante sorriso, si era rabbuiato e fatto torvo nel giro di pochi minuti. Odiavo quegli occhi quando si assottigliavano a quella maniera.

“Ma che hai? Perché così fretta di tornare in centrale?”. Mi liberai dalla sua stretta e spinsi la jeep sul terreno sabbioso e cosparso di ciottoli; là in mezzo, durante l’autunno e l’inverno, ci passava dell’acqua, quella che dalla montagna defluiva giù fino al mare, fino ai quartieri periferici. Rallentai e parcheggiai proprio davanti ad un ammasso di pietre ricoperte di muschio secco; pareva una sorta di diga naturale, ma sicuramente l’acqua, quando ne veniva giù molta, passava sopra le rocce e affogava ogni cosa. Dallo specchietto retrovisore lanciai una rapida occhiata alla casa del signor Palau; il vecchio era in piedi e ci osservava da dietro la staccionata con un’altra lattina di birra fra le mani. Ci dovevamo trovare verosimilmente nel punto in cui lui aveva visto parcheggiarsi il furgone la sera di venerdì, all’imbrunire. Oltre i grandi massi che l’alluvione del 2008 aveva trascinato dall’invaso di Poggio dei Pini fino a valle, ci si presentava dinnanzi il pioppeto, una distesa di alberi alti, fitti e in fiore che si sposava con i filari di gramigna e i rovi impenetrabili per qualche chilometro, risalendo il canale secco e ghiaioso fino a quella che in città tutti conoscevano come “La casa della strega”: una costruzione risalente ai primi del novecento all’interno della quale, da ragazzini, ci si andava in gruppo per superare la prova di coraggio, e poi, più tardi, ad amoreggiare con la propria ragazza. Era da tempo che non mi recavo da quelle parti.

“Che cosa ci facciamo quaggiù? Il nostro turno è terminato da un pezzo”. La voce di Sandra, alle mie spalle, mi riportò alla realtà. Per qualche ragione a me ignota, un brivido freddo mi attraversò la schiena, facendomi tremare forte.

“Non hai ascoltato Palau? Il furgone si è parcheggiato da queste parti. Guarda; ci sono ancora le impronte dei pneumatici”.

“E allora?”.

La fissai sbigottito. “Come “allora?”. Allora niente, potrebbe trattarsi dei tizi che hanno messo a segno la rapina in banca. Vieni, andiamo a dare un’occhiata qua in mezzo”.

Prima di scavalcare i grandi massi ricoperti di muschio e felci, mi voltai nuovamente e vidi che Palau se n’era tornato dentro casa; dietro le montagne, il sole stava ormai ritirandosi, mentre un gruppo di rondini, dopo essersi librato in volo da un cipresso, si allontanò svolazzando in direzione del mare. Sicuramente il vecchio aveva rioccupato la postazione sulla sedia a dondolo, e adesso contemplava i colori farsi sempre meno accesi e affievolirsi fino a lasciare spazio alla notte.

“Che cosa credi di ritrovare qua dentro?” domandò la mia collega, una volta che superammo i primi due o tre filari di pioppi in fiore. La visibilità era ridotta al minimo, il sole era ormai scomparso e noi avanzavamo cauti, le mani protese in avanti a tastare eventuali rovi o rami che ci impedissero di proseguire, o ci ferissero in volto. “Stiamo solo perdendo tempo. Il capo s’incazzerà, e noi due la finiremo a dirigere il traffico all’uscita delle scuole elementari”.

“Possibile. Ma voglio vederci chiaro” risposi, abbassandomi per non andare a sbattere contro un grosso tronco che si era spezzato e ostacolava il passaggio nel bosco. “Palau giura di avere visto un furgone aggirarsi da queste parti venerdì sera. Circa due ore dopo la rapina. A due chilometri in linea d’aria dalla Casa della Strega, a Macchiareddu, hanno ritrovato le auto bruciate. Non penso che si tratti di coincidenze”.

 

“E allora avvertiamo i carabinieri, sono loro che si stanno occupando di questo caso!”.

In quel momento, come se la voce di Sandra mi avesse colpito con la forza di uno tsunami, fui scaraventato in avanti in maniera violenta e andai a rovinare su un masso; ma i problemi erano due. Il primo, che non era la voce di Sandra ad avermi spinto, ma la mia collega stessa, dopo aver preso la rincorsa ed essermi piombata addosso con la forza delle sue spalle possenti. Il secondo -ben più grave, e raccapricciante- che non era un masso quello su cui era caduto, ma una testa. Umana, naturalmente. Affiorava dal terreno come un macabro ortaggio, come una zucca sgretolata e fracassata dalle mani dell’agricoltore impazzito; gli occhi erano gonfi e sembravano voler scoppiare dalle palpebre. Del naso e delle labbra, invece, non rimaneva granché: brame di carne sfilacciata e annerita di terra secca. Ritrovandomi a fissare quel volto negli occhi, capii come erano andate veramente le cose. Quando mi voltai, la mia collega, ammantata dal buio, mi puntava una pistola contro; ne potevo vedere la canna spianata nella mia direzione, la bocca di fuoco non aspettava altro che emettere il suo breve boato di morte.

“Non è quella d’ordinanza” sorrise, facendosi poco, poco più vicina. “Butta a terra la tua. E niente giochetti. Sai benissimo che ho buoni riflessi”. Li aveva veramente: al poligono di tiro, dove andavamo ad allenarci una volta ogni due settimane, raccoglieva più punti di tutti noi uomini messi assieme.

“Sandra, ti metterai nei pasti…”.

“Buttala ho detto. Obbedisci. O ti sparo direttamente”.

Dall’espressione sempre più torva dipinta sul suo viso, capii che diceva sul serio. Mi avrebbe freddato come un cane al primo accenno di ribellione nei suoi confronti. Sfilai la pistola dalla cintura, la gettai ai suoi piedi e tentai di rimettermi in piedi. Lei agitò il braccio armato e mi fece cenno di starmene immobile e in silenzio; scaricò la mia pistola e si infilò il caricatore in tasca, sempre tenendomi la sua puntata contro.

“Quello è Ignazio Garau” esclamò, indicando la testa che affiorava dal terreno alle mie spalle. Mi ritrovai a fissarla un’altra volta: i vermi se la contendevano strisciando, infilandosi fra i tessuti e la carne tumefatta come se si trattasse di una mela marcia. Garau, pace all’anima sua, era un pregiudicato con una carriera criminale decisamente prolifica alle spalle. Rapina a mano armata, estorsione, ricatti, minacce, roba di questo genere; uno che aveva passato più anni in galera che fuori. L’avevano rilasciato da poco, nemmeno due mesi. “Lo abbiamo utilizzato per rubare la macchina. Gli abbiamo promesso la metà del bottino, e ci ha creduto pure, l’idiota. Ci ha aspettato a bordo della Panda mentre ripulivamo la banca, ha rivelato di avere palle. Ci è dispiaciuto eliminarlo in questo modo”.

“E’ dispiaciuto a chi? A te, e poi?”.

La mia collega tornò a sorridere. Vista dalla mia posizione -me ne stavo accovacciato in un angolo, la schiena appoggiata contro il tronco di un vecchio pioppo- appariva ancora più grande, grossa e pericolosa. Soprattutto con quel revolver in mano. Ecco perché agli occhi delle telecamere i due incappucciati sembravano essere due uomini: Sandra, fisicamente, si prestava al ruolo egregiamente, con quelle spalle incurvate in avanti, il seno inesistente e gli arti più simili a prosciutti che a braccia e gambe. Per un attimo parve esitare; il suo volto s’era rabbuiato. Assumeva sempre quell’espressione quando rifletteva, oppure doveva prendere una decisione.

Dopodiché tornò a ghignare e disse: “Ma si, che importa, tanto stai per morire. L’altro insospettabile è Maurizio Cannas, contento? Scommetto che non te lo aspettavi. Scommetto che sei rimasto basito, piccolo Max. Non è così?”.

“Effettivamente. Davvero insospettabili. Ma credi che ci vorrà molto, prima che i carabinieri o chi per loro risalirà a voi due? Pensi che ci vorrà molto, prima che questo tizio -indicai la testa di Garau- cominci a puzzare seriamente?”.

Sandra scosse il capo, mi fece cenno di tacere, poi si voltò rapidamente e tentò di penetrare con gli occhi il buio alle sue spalle. Non ebbi il tempo di muovermi, il revolver spianatomi in faccia mi impediva di agire e pensare senza farmi prendere dal panico; non era come nei film, bisognava possedere davvero una buona dose di sangue freddo per tentare di togliere l’arma dalle mani di Sandra. Aldilà degli alberi, oltre le rocce, riuscii a scorgere un bagliore tremolante; probabilmente i fari della jeep, o le sirene. Eppure non mi ricordavo di averle lasciate in azione. L’unica cosa che si riusciva ad udire distintamente era il canto di qualche passero solitario che svolazzava fra gli alberi. Certo, in qualche modo Sandra aveva pure tentato di non far finire le cose in quel modo. Se solo le avessi dato retta, se solo fossimo tornati in Comune, alla centrale…

“A quell’ora saremo già lontani. Abbiamo nascosto i soldi lassù da qualche parte” proseguì lei, indicando un punto vago oltre il bosco. Probabilmente parlava della Casa della Strega, la capanna dell’iniziazione, il nascondiglio delle coppiette. “Li abbiamo tenuti al calduccio abbastanza. Sotto un asse nel pavimento, proprio come nei film. Stasera io e Maurizio lasceremo questa miserabile città di provincia e voleremo lontano… Verso una nuova vita. Carichi di denaro, collega, più di quanto tu possa immaginare”. Mi chiesi se Maurizio avesse intenzione di uccidere pure lei. Probabilmente era così.

“Era questo a cui pensavi quando hai fatto il giuramento? Desideravi avere un alibi perfetto per mettere a segno il colpo della vita, non è così?”.

Sandra si strinse nelle spalle. “A dire il vero” rispose “l’idea era di Maurizio. Fino a due settimane fa ho sempre svolto il mio dovere, ho sempre rigato dritto. Mai uno sgarro, mai una nota di disciplina. Mai una trasgressione al nostro stupido codice. Ma dopo dieci anni di onorato servizio mal retribuito, di bollette che non riuscivo più a pagare, di difficoltà, stenti e ristrettezze economiche, mi si è presentata davanti un’occasione irripetibile. Diciamo che pure io ci pensavo da un pezzo, ma progettando e progettando non ho fatto che perdere tempo. Maurizio ha reso possibile mettere in pratica i miei piani, lui è il cervello dell’operazione. La risoluzione dei miei problemi. Com’è che si dice? Il deus ex machina”. Quella schizofrenica si era innamorata di un bandito, un elemento che l’avrebbe fatta fuori una volta che avessero abbandonato Capoterra.

“Siete solo due pazzi” commentai, scoppiando a ridere. “E lui farà fuori pure te, Sandra. Dammi retta, è meglio se…”. Tentavo di perdere tempo, di tergiversare, di fare sì che le cose si avviassero verso un epilogo diverso. “E’ meglio se metti quel revolver a posto e…”. Sandra intuì i miei piani, scoppiò in una risata degna del più cattivo dei film di genere, e prese la mira, stringendo l’impugnatura del revolver con tutt’e due le mani.

“Addio” esclamò, un attimo prima che la detonazione squarciasse il silenzio del pioppeto.

 

***

 

La mia collega rovinò a terra, cadde sulle ginocchia e oscillò come una marionetta a cui avessero appena tagliato le corde. La pistola le sfuggì dalle mani, finendo da qualche parte nel buio alle sue spalle, fra i rovi e i cespugli di malerba che proliferava persino sulle cortecce degli alberi. Uno stormo di rondini e di cornacchie, allertate dalla detonazione, abbandonò le fronde degli alberi in maniera affrettata e rumorosa, facendo frusciare i pioppi dove solitamente trovava riparo per la notte. Pochi secondi dopo, il bosco piombò nel più assoluto silenzio.

Nonostante la visibilità scarsa, riuscii a vedere chiaramente l’orrenda ferita sul collo della mia collega, dalla quale il sangue sgorgava come un fiume in piena, prima che Sandra si afflosciasse definitivamente priva di vita fra le erbacce e le foglie caduche e marce. Una nuova detonazione seguì la prima, e il cadavere fu scosso come in preda ad un elettroshock, vibrando dalla testa ai piedi in un ultimo, mortale sussulto.

“Così sono sicuro che è morta per davvero”.

Riconobbi dalle prime parole quella voce rauca e graffiante, le pareti della gola intaccate per una vita intera dal fumo, dall’alcol e da ogni altro vizio possibile. “Stupida vacca stronza. Ci mancava proprio poco, che ti facesse saltare le cervella”.

Il vecchio Palau emerse dalle tenebre con un sorriso beffardo stampato sulla sua faccia butterata, il fucile da caccia a canna corta ancora fumante fra le mani; scavalcò il cadavere di Sandra, riverso a terra, e venne nella mia direzione tenendomi l’arma puntata contro.

“Ha sentito tutto?” trovai la forza di domandargli, tentando di rimettermi in piedi sulle gambe malferme e tremolanti. Per tutta risposta, Palau mi assestò un calcio frontale in pieno petto, mandandomi a sbattere violentemente contro il tronco di un pioppo. Sentii un rivolo di sangue scorrermi dalla nuca sul collo, depositandosi sul colletto della camicia. Per un attimo pensai di svenire, mi accasciai a terra su un fianco e chiusi gli occhi, ma le mani di pietra del vecchio, dure e callose all’inverosimile, non tardarono a schiaffeggiarmi e farmi ritrovare la lucidità.

“Ho sentito, certo che ho sentito” ghignò. Adesso era proprio sopra di me, la duplice bocca di fuoco del suo fucile sembrava quasi fissarmi. “Ma che bravo poliziotto che sei, caro il mio Max, proprio il più bravo di tutta Capoterra; vi ho seguiti e ascoltati per tutto il tempo, nascosto fra i cespugli. Certo che la puttana faceva seriamente, non trovi anche tu? Ma avrebbe dovuto legarsi la lingua, anziché raccontarti per filo e per segno dove ha nascosto i soldi”.

“Vuole farmi fuori?” gli chiesi, massaggiandomi la nuca dolorante.

Palau annuì. “Ma non prima di averti sfruttato a dovere. E non iniziare con la storia del “passerai casini, ti troveranno”, perché con me non attacca. Nossignore, quei soldi farebbero gola a tanti. Pensi che non sia stufo di vivere assieme a quella miserabile grassona di mia moglie, coltivando zucchine e patate per tutta la vita? Avanti”.

Mi fece cenno di rimettermi in piedi. “Sono stufo di contemplare tramonti” proseguì Palau. “Almeno da casa mia. Avanti, in piedi!”. Le ossa delle braccia, delle gambe e della schiena mi dolevano in una maniera che non so descrivere; mi sentivo come se un treno merci mi fosse passato sopra più volte, o una mandria di cavalli impazziti mi avesse travolto e costretto a terra a colpi di zoccolo. Era una sensazione nauseabonda. Mi sentivo debole ed intontito.

“Trascina il cadavere fino a quel punto lì e nascondilo fra i cespugli. La gramigna sa essere spietata, da queste parti; non smette mai di crescere, sono sicuro che nei prossimi giorni ne verrà su abbastanza da ricoprire la tua cara collega affinché nessuno la veda. Il resto lo faranno gli uccelli”.

Feci come mi aveva chiesto. Poi, a lavoro finito, mi voltai a guardare Palau negli occhi.

Il vecchio mi osservava serio, sebbene nel suo sguardo ci fosse un che di sarcastico che non riuscivo a decifrare, come se quella fosse tutta una messinscena, tutto uno stupido gioco.

“Ben fatto” esclamò, sorridendo. “Stupida stronza. Non mi è mai piaciuta, l’avrai intuito sul pianerottolo. Né io a lei. È stato bello piantarle una pallottola nella schiena, che sia maledetta”.

“Sei pazzo quanto lei, Palau. Collegheranno la nostra visita…”.

“Non mi interessa” replicò lui. “Fa silenzio. E in marcia”. Il vecchio aveva bevuto parecchio: a tradirlo era l’alito, che mi colpiva a zaffate e mi costringeva a tossire, tanto era fetido.

Obbedii e mi incamminai a passo incerto seguendo il rigagnolo asciutto che tagliava in due il bosco, e in inverno si riempiva di acqua e melma, calpestando ghiaia e foglie secche che scricchiolavano sotto la punta degli scarponi militari. Di tanto in tanto mi lanciavo una rapida occhiata alle spalle, ma a quel punto Palau mi piantava la canna del fucile sulla schiena costringendomi a non rallentare.

Risalimmo il fiumiciattolo per uno o due chilometri, i filari di pioppi che si succedevano regolari l’uno dopo l’altro, protendendosi rigogliosi verso il cielo stellato; dal folto del bosco proveniva semplicemente il gracidare delle rane e dei rospi che si spostavano balzando da un cespuglio ad un altro al nostro passaggio. Da qualche parte nella campagna, il latrato di un cane si disperdeva ritmicamente nella notte ancora giovane. I rumori della città e della strada statale, invece, erano lontani, praticamente non distinguibili; mi domandai se a quell’ora in centrale qualcuno si fosse già chiesto dove eravamo finiti, Sandra ed io, e se ci stessero già cercando. O forse là fuori la vita continuava pure senza di noi: questo fu un pensiero che mi diede il tormento e mi impedì di riflettere lucidamente fino a quando Palau non mi ordinò di fermarmi. Così, dopo un’ora di cammino, la mia mente non aveva progettato nessuna scappatoia, nessuna via di fuga.

Il rigagnolo si diramava in due direzioni: la prima portava all’invaso di Poggio dei Pini, quello che quattro anni prima, dopo due giorni di piogge intense e torrenziali, aveva ceduto e scaricato a valle una quantità d’acqua pari al doppio della sua portata.

 

“Sai benissimo da che parte andare, avanti” intimò il vecchio, facendo pressione con la canna del fucile sulla mia schiena. “Chissà quante volte ci sarai andato con qualche bella ragazza, a seguire lezioni di anatomia umana. Quando eri un ragazzino, intendo”.

In realtà non ci ero stato che una volta, ma non a limonare con una ragazza; era una sfida fra i miei coetanei: recarci lassù al buio, chiuderci dentro per cinque, dieci minuti e poi uscire. Una sorta di iniziazione, appunto, per entrare a far parte del gruppo a tutti gli effetti. In ogni caso, annuii e basta, non era proprio il momento appropriato per dilungarmi in un resoconto drammaticamente sentito della mia infanzia, delle scorribande fra amici.

Meno di dieci minuti più tardi, ci ritrovammo a risalire l’argine destro del rigagnolo, arrampicandoci come meglio ci riusciva alla parete cosparsa di sassi e grosse radici che affioravano dal terreno in seguito all’erosione invernale dell’acqua. La terra era sdrucciolevole, le mani facevano fatica a tener salda la presa e più di una volta mi ritrovai col culo per terra, i pantaloni della divisa strappati e le ginocchia sbucciate e macchiate di sangue. Una volta di sopra, Palau sorrise e mi concesse una piccola tregua per riprendere fiato. Pure lui boccheggiava, eppure, nonostante l’età, la gobba e tutto il resto, si capiva lontano un miglio che il vecchio era abituato al lavoro duro dei campi e alle marce nella campagna. Gli stenti lo avevano temprato sia dentro che fuori.

“Che bella gita, ti è piaciuta? Siamo arrivati al capolinea” esclamò euforico, il volto che gli si era fatto paonazzo, la fronte madida di sudore, le vene del collo gonfie e pulsanti. Palau non stava più nella pelle, oramai non vedeva che l’ora di arraffare il denaro e farmi fuori come un cane.

La Casa della Strega, una tipica abitazione sarda dalle mura di pietra incastonate fra loro e il tetto di paglia e fango, sembrava aspettarci immobile e silenziosa al centro della radura, illuminata a malapena da un debole raggio di luce lunare che filtrava fra le fronde degli alberi.

“Avanti! Cammina, cammina!”. Palau mi sospinse fin sull’uscio della capanna, dove la piccola ma spessa porta di legno ci aspettava socchiusa. Scorso una debole luce provenire dall’interno, capii che l’unica chance di rimanere vivo che mi era rimasta era una soltanto: sfondai il portello con un calcione frontale ed esibendomi in una capriola da manuale circense balzai di lato, tutti i nervi tesi in unico sforzo. Vidi due lampi di luce arancioni succedersi così veloci da non rendermi immediatamente conto di ciò che era successo; Palau fu sbalzato all’indietro, lo vidi che andava a troncarsi la schiena contro il tronco di un pioppo con un enorme scheggia di pietra infilzata nello stomaco. Si afflosciò a terra in maniera teatrale, lasciando una lunga e densa scia di sangue sulla corteccia, lo sguardo contratto in una smorfia di eterno e taciturno dolore.

“Gesù santissimo” fu la prima cosa mi sentii dire. Il cuore pareva balzarmi fuori dal petto, mai avevo reagito così d’impulso in vita mia; mai avevo tremato così forte, e invocato il nome del Signore per avermi concesso la salvezza quando tutto sembrava perso.

Mi tirai in piedi fra mille imprecazioni e tanto dolore, e mi avvicinai a dare un’occhiata al cadavere di Palau che stringeva ancora il suo dannatissimo fucile fra le mani: il sangue sgorgava copioso dalla ferita sul petto, imbevendogli i vestiti. La scheggia gli si era conficcata a metà tra le costole e lo sterno, la luce della luna rivelò carne maciullata e pezzetti di ossa frantumate e biancastre -uno spettacolo davvero osceno e raccapricciante.

“Fanculo a te, maledettissimo ubriacone da quattro soldi” fu l’unica cosa che proferii dalla mia bocca.

 

Quando entrai, facendo scivolare lentamente la porta sui cardini cigolanti, sapevo già chi e che cosa avrei trovato all’interno della capanna. Raccolsi la pila caduta a terra durante la sparatoria, puntando il cono di luce su Maurizio Cannas, che se ne stava riverso con la capoccia divisa a metà dal proiettile di Palau. L’ex collega sembrava fissarmi, il fucile ancora fumante in grembo, le braccia distese lungo i fianchi, la ferita mortale che imbrattava il pavimento di paglia e lo innaffiava di sangue. Probabilmente lui e Sandra avevano un appuntamento e a quell’ora, se tutto si fosse svolto secondo i loro piani, si sarebbero divisi i soldi e poi ognuno avrebbe tirato dritto per la propria strada. Era una ipotesi che avevo preso in considerazione sin dall’inizio della marcia nel pioppeto, quando Palau mi aveva ordinato di procedere in direzione della Casa della Strega, ma mi ero tenuto ben lontano dal rivelargliela, naturalmente. Il vecchio era così preso dall’euforia e dall’insaziabile sete di arraffare quei soldi, che non aveva fatto in tempo a maturare le mie medesime ed utili riflessioni sulla natura di ciò cui stava andando incontro. E ci aveva lasciato le penne, così come Cannas, la mente della rapina alla banca, nonché l’assassino della guardia giurata che in città tutti cercavano da quasi una settimana, ormai.

Feci scivolare la luce della torcia elettrica alla sinistra del cadavere, e in quel momento il cuore prese a battermi forte.

“La grana” mormorai, avvicinandomi carponi ad una valigia nera di nylon semisepolta sotto strati di fango e paglia secca. L’avevano nascosta per bene. Strinsi la torcia fra i denti, ripulii il tutto e feci scorrere la zip con le mani che mi tremavano senza controllo. Adesso, una parte dell’euforia di Palau si era trasmessa a me e non mi dava modo di riflettere lucidamente; ero scosso da un fremito incontrollabile, sentivo la lingua farsi sempre più secca, il battito del cuore sempre più accelerato e scostante.

All’interno della valigia c’erano una marea di soldi in contanti, decine e decine di mazzette alte ognuna tre dita e ordinatamente impilate l’una sull’altra, per un totale di una cifra che non riuscii a contare nemmeno fino a metà. Non avevo mai visto tutti quei soldi in una volta, se non alla televisione, nei vecchi film di gangster che trasmettevano il sabato sera a Rete4.

“Che situazione” biascicai, facendomi cadere a terra, stremato. Il dubbio mi si insinuò dentro come una zecca sotto la cute di un cane.

 

***

 

Una volta di fuori, percepii da subito che c’era qualcosa che non andava. Stringevo il fucile di Cannas in una mano e la torcia nell’altra; la valigia invece me l’ero assicurata alla schiena.

Quando lo illuminai, scoprii con terrore che Palau non era più nel punto in cui era caduto, di lui non rimaneva che la scheggia insanguinata ai piedi del pioppo.

“Dannato figlio di puttana” pensai, seguendo la scia di sangue che si allungava nella radura e terminava nel declivio roccioso da cui eravamo saliti prima. Lanciai la valigia per prima, poi il fucile e la torcia; a metà parete mi tuffai nel vuoto e atterrai goffamente sui ciottoli e sulla sabbia, sbucciandomi ulteriormente le ginocchia.

Fortunatamente, il vecchio non aveva compiuto che pochi passi, prima di farsi ricadere a terra stremato; lo tradì un gemito, che mi condusse sulla destra, al limitare del bosco. Palau era disteso sul terreno, le mani protese verso una roccia ricoperta di muschio, in un ultimo sforzo, un ultimo quanto vano tentativo si sottrarsi alla punizione estrema.

Quando si accorse della mia presenza alle sue spalle sgranò lo sguardo e deglutì forte, il suo pomo d’Adamo salì e scese parecchie volte. Gli spianai il fucile in faccia. Lui protese le mani in avanti e biascicò qualcosa d’incomprensibile. Niente che valesse la pena ascoltare, naturalmente.

Lo sparo gli cancellò la faccia.

 

Mezz’ora più tardi -non si vedeva nemmeno l’ombra di un cane che ciondolasse per strada- abbandonai la jeep sul retro di un magazzino dismesso, fra i bidoni stracolmi di spazzatura e le bottiglie di birra piene di piscia abbandonate lì dai barboni, e mi diressi a casa a piedi. Nessuno mi vide con quella valigia in mano. Nessuno vide i miei abiti lerci e macchiati di sangue, né le ferite che si stavano appena rapprendendo sulle braccia, sul volto e sulla fronte. In salotto mi liberai dei vestiti e dopo averli gettati nel cesto della biancheria sporca, mi ficcai sotto il getto dell’acqua calda a tempo di record e lavai via sudore, sporco e terriccio che defluì velocemente nello scarico assieme al sangue e ai pezzetti di foglie secche che mi ero portato dietro dal pioppeto.

Cinque minuti dopo, i capelli asciugati alla meno peggio, il volto lindo ma segnato da piccoli tagli ed escoriazioni poco profonde, sentii che dabbasso qualcuno bussava alla porta. Deglutii. Una voce di uomo chiamava il mio nome. Mi spinsi fin sul ballatoio per sentire meglio, ne riconobbi l’impronta e capii che si doveva trattare del Capo con il resto dei suoi uomini.

Avevano già ritrovato la jeep, Sandra, il vecchio Palau e Maurizio Cannas morti ammazzati nel bosco?

“Sono io, Domenico, fammi entrare o saremo costretti a sfondare la porta!”.

In salotto, la valigia giaceva aperta sul tappetto orientale, parte dei contanti sparpagliati per terra e sul divano di pelle. Non appena l’avessero vista, per me si sarebbe potuta scrivere la parola “fine”.

“Per l’ultima volta” tuonò il Capo, “apri la porta! Sappiamo che sei là dentro!”.

Feci un respiro profondo. In una frazione di secondo, stabilii che cosa potevo fare, dove sarei potuto andare, quanto tempo sarebbe passato prima che mi prendessero e mi interrogassero riguardo a tutta quella sporca storia. E gli unici soldi che avrei visto sarebbero stati quelli con cui pagare la parcella bollente del mio avvocato.

 

La porta si spalancò all’improvviso. Non c’era più tempo per riflettere. Il Capo e i suoi uomini fecero irruzione in salotto con le pistole spianate davanti. Io stringevo la mia fra le mani. Loro, sorpresi, osservarono la valigia per pochi secondi, prima che i nostri sguardi si incrociassero sulle scale. Il Capo mi puntò la sua Beretta addosso.

Dopodiché ci fu solo tanto, ma proprio tanto rumore.

Lorenzo Scano   


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